Capitolo 3: Di notte al parco.
27 novembre
Cazzo. Sono ubriaco.
Mi lascio cadere su una panchina.
È quasi dicembre, si sta facendo freddo. Dovrei dare retta ad Andy e fare il cambio stagione.
Di tempo ne ho a bizzeffe da quando mi hanno licenziato, è la voglia che mi manca.
Non mi va di cercare un altro lavoro, non mi va di conoscere gente, non mi va di fare il fottuto cambio di stagione. Quasi, quasi mi lascio morire di freddo, qui, su questa panchina. Magari mi scambiano per un barbone e mi lasciano in pace. Pace. Chissà cosa si prova a stare in pace. Chissà cosa si prova a non avere rotture di coglioni, ogni giorno, per ogni cosa.
Che si fottessero! Mio padre, Andrew, Loris.
Rido.
Ecco la lunga lista di persone a cui importa qualcosa di me al punto da sentirsi giustificati nel darmi il tormento: un genitore, un amico che si sta stancando di me ed il mio perfetto cugino.
Che siano maledetti, tutti e tre.
Mio padre per aver contribuito a mettermi al mondo, Andrew per essere una costante della mia esistenza e Loris per rappresentare tutto quello che non sarò mai.
Il cielo nero sopra di me inizia a muoversi e le stelle disegnano dei micro cerchi incandescenti che bruciano sulle mie retine. Mi porto le mani sul viso e le spingo forte contro gli occhi.
Sono così ubriaco. Il mondo inizia ad ondeggiare insieme al cielo, la nausea mi assale, ma non manderò a puttane tutti i soldi spesi in alcool, vomitando. No.
Faccio dei gran respiri, l’aria gelida sembra darmi sollievo spegnendo il principio di incendio alla bocca dello stomaco. Resto immobile, aspetto che passi la nausea, il freddo, questa notte.
Faccio scivolare le mani sul collo, butto indietro la testa ed apro piano gli occhi.
Il cielo nero, si è fermato. Le stelle si sono fatte opache, o forse sono io ad avere la vista appannata.
Sento dei rumori in lontananza. Gente, gente che passa.
Vadano al diavolo pure loro. Che avranno da ridere a quest’ora della notte? O per quel che conta, che avranno da ridere in generale? In questo mondo non c’è assolutamente nulla da ridere.
Sposto lo sguardo sul gruppo, un’accolita di ragazzini.
Quanta libertà. Mi sento così vecchio a pensare che alla loro età a stento potevo guardare la tv fino a tardi. Alla loro età. Adesso faccio fatica anche a ricordare se mai ho avuto la loro età.
Sicuramente, a livello biologico sono stato più giovane, ma di fatto, non credo di aver mai avuto quell’espressione ingenua e spensierata. Li osservo e sento la nausea tornare violenta.
Mi stendo sulla panchina, riprendo altre boccate d’aria gelida e aspetto che giunga il sonno.
Ma fa davvero troppo freddo. Forse dovrei semplicemente tornarmene a casa, chiamare un taxi, o chiamare Andrew. Ma non posso. Si fotta!
Stamattina l’ho fatto incazzare di nuovo. Forse stavolta è quella definitiva.
Stasera, o domani mattina, dipende da quanto ci metto a smaltire la sbornia, tornerò a casa e troverò le valigie davanti alla porta. Alla faccia del cambio stagione.
E poi che farò?
Ci penso sempre più spesso oramai. Immagino la mia vita senza Andy.
Lo sto spezzando. Lo sento. Più passa il tempo, più lo consumo.
Forse è per questo che continua a dimagrire. Cristo, sembra uno scheletro con addosso la pelle.
Quanto vorrei chiedergli che ha, ma non posso, non me ne frega niente. E se glielo chiedessi, lui sicuramente penserebbe che invece mi importa. Ed io spendo la maggior parte del mio tempo per rendere chiaro che così non è.
Torno a pensare alle mie valigie fuori dalla porta, e poi?
Tornare da papà?
No, non ci penso proprio. Ridurmi ad essere uno spettro come lui, no, grazie.
Accettare l’invito di Loris? Ma sì, potrei farlo. In un paio di settimane distruggerei anche lui e poi, il nulla.
Il mio elemento naturale. Forse dovrei trasferirmi in un deserto e vedere quanto resisto steso al sole.
Ah, che bella prospettiva, io che divento una carcassa.
Ma chi voglio darla a bere? Sono una carogna, sì, ma nessun rapace si nutrirebbe dei miei resti.
Forse dovrei tornare al locale e rimorchiare la rossa che mi si è strusciata addosso tutta la sera.
Sì, ora mi alzo e torno lì, una cosa rapida. La trascino nei bagni e me la sbatto per benino, in barba alle malattie. Magari gli vengo anche dentro e la metto incinta, così le passa la voglia di farla vedere nemmeno fosse sua.
Dio che orrore. Un figlio mio! Bastardo quanto chi gli ha dato la vita.
No, non posso fare questo a quel bambino.
Non commetterò l’errore di mio padre. Non metterò al mondo un altro miserabile. Piuttosto mi taglio le palle alla base, qui, seduta stante.
Merda. Questa sbronza mi sta prendendo proprio male. Non mi va di restare qui e scoprire dove finirà la mia testa stasera. Piuttosto spero di morire assiderato prima.
Ancora rumori. Altra gente. Spero non abbiano le stesse facce di quelli di prima, potrei trovare le forze per alzarmi e fare una delle mie cazzate, tipo dare vita ad una rissa o, peggio, farmi arrestare. Trovo il coraggio di aprire gli occhi e do uno sguardo anche a loro.
Quasi cado dalla panchina per la sorpresa, quella è la commessa.
È insieme ad un tizio dall’aria impacciata, alla sua amica acida e ad un altro ometto basso.
Che gruppo. Li osservo.
L’ometto basso è evidentemente ansioso di sapere se l’amica della commessa gliela darà.
“Non ci contare amico” penso.
In nessun universo una come lei si abbasserebbe, in senso lato e figurato, a tanto.
La questione è diversa per quanto riguarda la commessa. Il tizio impacciato la guarda, le parla e la tocca consapevole che a fine serata porterà a casa qualcosa, anche fosse solo un bacio.
Quelle labbra. Avevano un buon sapore.
La commessa non lo sta guardando però, o meglio, ha gli occhi puntati su di lui, ma non lo guarda davvero. Come quella mattina, quando si è messa a fissare la tazza.
Cazzo quanto è strana.
La voglio chiamare. So che non è una buona idea, so che non finirà bene per niente, ma sono ubriaco e muoio dalla voglia di chiamarla.
Mi sollevo e apro la bocca. La voce mi si condensa in gola.
Merda, come si chiama?
Betty! No, no, quella è la rossa del locale. Si chiama, Lucy. Sì, Lucy. No, non è nemmeno Lucy. Ci sono vicino, però.
«Hey!»
urlo.
Nessuno si gira.
«Hey, tu!»
urlo di nuovo.
Niente. Mi ignorano tutti. Mi ficco due dita in bocca e fischio.
L’ometto basso e patetico, l’amico con i jeans troppo stretti, l’amica acida e la commessa si girano contemporaneamente nella mia direzione.
Sorrido ed alzo una mano per salutare, ma sono così ubriaco che non coordino bene i movimenti.
La commessa guarda gli altri e dice qualcosa, questi annuiscono e poi lei mi viene incontro.
Mi alzo barcollando, quando mi arriva di fronte mi da un ceffone.
*****
Paul mi sta parlando. Mi parla da tutta la sera. È carino, affabile, forse è anche interessante, non lo so. Tengo in mente le sue parole solo se nel mezzo ci sono domande a cui rispondere, ma lui non ne ha fatte molte. Forse ha capito che non mi piace parlare, o forse è così concentrato sulla mia scollatura che pensa solo a come riuscire a sprofondarci in mezzo la faccia. Ci starei anche, ma ho come l’impressione che poi si attaccherebbe. Sì, è sicuramente uno di quelli che poi ti richiamano, magari per una ripassata e poi un’altra e così via. Ma io non sono in vena.
Ho accettato per far felice Ali, o per farle smettere di rivolgermi quei suoi sguardi così pieni di ansia e amore. L’ho costretta a subirsi John, l’amico scemo di Paul. Non avrei dovuto però. Non avrei dovuto cedere. Non sono nel mood giusto per dar retta agli uomini. O alle persone in generale.
Non so cosa l’abbia convinta del contrario. Ultimamente Ali è strana. È animata da qualcosa, da una specie di convinzione. Sembra una persona che ha passato la sua vita tentando di aggiustare un vecchio orologio e all’improvviso ha sentito un tic. Ha la stessa espressione eccitata di qualcuno che è vicino a raggiungere un obiettivo. All’inizio pensavo fosse qualcosa che riguardasse lei, ma solo negli ultimi giorni ho capito che l’orologio sono io. Non ho idea di cosa abbia visto in me di diverso, che rumore ho prodotto. Non lavassi via ogni mio giorno, forse avrei memoria di qualche gesto o qualche parola che possa averle dato queste assurde speranze. Ma sono sicura di non aver fatto assolutamente nulla.
Il blabberaggio di Paul mi sta dando la nausea. Ma quanto parla?
Lo bacerei solo per farlo stare zitto, ma poi dovrei fare la parte di quella che ci ripensa.
Ma perché ho detto di sì ad Ali? Come diavolo ho fatto a finire qui, stasera?
Qualcuno urla alle nostre spalle. Nessuno di noi si gira.
Urlano di nuovo, Paul continua a parlare, io lo fisso sperando questa tortura finisca a breve.
Un fischio taglia l’aria gelida e ci giriamo tutti. Qualcosa mi si muove in fondo allo stomaco, non ci credo. Seduto su una panchina c’è Ian.
Ha fischiato a me?
No. Non ci credo. È una coincidenza. Non è possibile. Questo mondo non è davvero così piccolo.
Ma lui solleva una mano e mi sorride. Sembra stia cercando di afferrare qualcosa nel vuoto.
«Aspettate un attimo»
dico agli altri.
Ali spalanca la bocca.
«Ma quello è»
«Torno subito»
ripeto, bloccandola. Tutti annuiscono.
Mi fiondo da quel cretino. Vedendomi arrivare si alza barcollando. È ubriaco?
Gli arrivo sotto il muso e sorride di nuovo. Il suo alito sa di un negroni di troppo.
Gli mollo uno schiaffo. Così. Perché mi va. O forse per togliergli quell’aria intontita dalla faccia.
Lui mi fissa confuso.
«Dimmi. Ti sembro forse un cane?»
Lui inarca le sopracciglia.
«Un… un cane?»
biascica.
«I cani si chiamano fischiando, non le persone»
«Aaaah…» fa lui «Non mi ricordo come ti chiami»
Scuoto la testa.
«Forse è un segno del destino»
«In che senso?»
«Nel senso che se non ti ricordi come mi chiamo, forse è perché non mi devi chiamare»
Ride. Ma l’espressione divertita muta repentinamente. Sembra stia per vomitare, o che stia trattenendo il vomito.
Per sicurezza faccio un passo indietro, non si sa mai.
«Senti» riprende lui «Non ti vedo da secoli e sono ubriaco, vuoi davvero intavolare un discorso del genere, ora?»
Incrocio le braccia sul petto.
Sta diventando verde, o blu?
Non capisco il colore della sua pelle. Mi avvicino di nuovo.
Blu. Decisamente blu. Le labbra, le sue labbra a cuore sono blu, la pelle del viso si è fatta rossa ed il naso ha il colore di una ciliegia. Allungo una mano e lui si ritrae. Forse si aspetta un altro schiaffo.
«Stai fermo»
gli ordino. Lui dondola e penso proprio che cadrà a terra. Ma allarga le braccia all’ultimo momento e ritrova l’equilibrio. Fa fatica a tenere gli occhi aperti, oppure non riesce a mettermi a fuoco.
Gli tocco la faccia ed è gelida. Solo ora noto come è vestito. Ci saranno 7 gradi stasera, e lui ha addosso una camicia leggera e dei jeans.
«Stai congelando»
dico.
«Non sento niente»
«Ti chiamo un taxi»
«Andy mi ha cacciato di casa»
“Questo è un problema” penso.
