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Rain

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VeraNere
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Riepilogo

Ci sono delle anime che imparano a vivere solo dopo essere morte. Ian e Lisa sono due persone spezzate dalla vita e tormentate dal passato. Il loro incontro partirà dalla pelle per arrivare all'anima, un viaggio difficile e non senza ostacoli, il più grande dei quali è l'accettazione di sé. *in corso* 2 capitoli ogni giorno

CoppiaAmoreSentimentaleRagazzoRagazzaSessoPassioneseconda possibilitàSentimentiTristezza

Prologo.

3 Dicembre.

«Che razza di coglione»

dico, fissando il ‘coglione’ che ignora la bellezza seduta di fronte a lui.

Diamine, è proprio bella. Pelle olivastra, forme mediterranee, capelli lunghi e castani, ma non un castano anonimo. No, nei suoi ci sono tutte le sfumature della terra. E poi ha due occhi enormi, credo siano marroni, ma a tratti sembrano verdi, non so se è colpa delle luci di questo locale. Ed ha una bocca… santo cielo! Che bocca!

Come cazzo si fa ad ignorare quelle labbra? Carnose, di un rosa intenso, che mi sta venendo duro solo ad immaginare di spingerci dentro un dito, e non solo.

Per non parlare delle mani. Ha le dita lunghe, sottili, agili, di quelle che vorresti sempre addosso per scoprire quanto bene ti sanno toccare. Ed io le sto immaginando sfiorare ogni centimetro del mio corpo, mentre quel coglione, la sta ignorando.

Da quando sono entrati nel locale si sono scambiati un sorriso poco prima di ordinare, dopodiché lui ha incollato gli occhi al cellulare senza più staccarli.

Non ha sollevato lo sguardo da quello stupido aggeggio nemmeno quando la cameriera gli ha portato il suo piatto.

Lei è rimasta seduta lì, a fissarlo, con un’espressione di stanca tristezza, nemmeno ci ha provato ad attirare la sua attenzione.

È questo che succede all’amore? È così che si riducono quelli che decidono di stare insieme?

Io sono seduto qui, con un abbozzo di erezione solo immaginando cosa potrei farci con una così, e a quel tavolo, il coglione, è più interessato ad un aggeggio di plastica e metallo.

«Ian… abbassa la voce»

sibila Andrew, il solo amico della mia vita.

La sua voce mi arriva ovattata, quasi provenisse da un posto lontano, sott’acqua, e si insinua nei miei pensieri, rischiando di farmi perdere l’epifania.

Decido di ignorarlo e proseguo:

«Un coglione, non c’è altra definizione!» scuoto la testa «Stare seduto con una tale bellezza e preferire la compagnia di un cellulare»

«Ian!»

ripete Andrew, strappandomi in maniera definitiva dal mio momento catartico.

Lentamente rivolgo lo sguardo verso la faccia del mio amico isterico.

I suoi occhi neri, sempre più sprofondati in un viso che sta perdendo sostanza, mi fissano spiritati.

«Cosa?!?» ringhio a denti stretti «Va contro il mio codice morale ignorare un tale scempio!»

Lui mi fissa con un’espressione sarcastica.

«Adesso hai una morale?» domanda.

Le sue folte ciglia nere proiettano lunghe ombre sugli zigomi troppo sporgenti.

“È dimagrito ancora” penso. Dovrei chiedergli se qualcosa che lo affligge, se c’è una ragione dietro a questo deperimento che, da un anno ormai, ne sta divorano il fisico già asciutto di suo.

Ma io sono io e in questo momento provo fastidio. Mi ha interrotto nel bel mezzo di un processo di ebollizione che mi avrebbe sicuramente portato a fare una delle mie tipiche cazzate, quindi mi limito ad incrociare le braccia sul petto e a guardarlo senza parlare, sapendo quanto questo mio atteggiamento lo fa incazzare.

«Senti un po’, vuoi fare a botte per caso?» mi dice, al limite della pazienza «Perché quello» indica il coglione con la testa «Se ti sente, te le dà di santa ragione!»

Rido.

Andrew ha ragione, il coglione è ben piazzato.

Sembra uno di quei militari dei film d’azione, capaci di metterti k.o. con una mossa fulminea, schiacciandoti la trachea, premendo con due sole dita nel punto giusto.

Ha i capelli biondi, tagliati corti e pettinati alla perfezione, le spalle larghe, il viso affilato e due mani esperte, le mani di uno che i pugni li sa tirare

“Sempre che non gli si siano atrofizzate a furia di tenerle appiccicate al cellulare” penso.

«Ian…»

riprende Andrew.

Sospiro e scuoto la testa.

«Che succede, Andy?» lo interrompo «Geloso?»

Dal modo in cui serra la mandibola e corruga la fronte, capisco che sto per fargli saltare i nervi.

In questo preciso istante dovrei scrollare le spalle, chiedergli scusa e cambiare argomento, tornare alla nostra discussione sul mio futuro, sul suo lavoro, e tutte le altre chiacchiere inutili che si fanno quando si cerca di riempire silenzi che punterebbero l’attenzione sul vero problema.

Nel nostro caso sarebbero due: la sua magrezza ed il mio masochismo.

Ma resta il fatto che io sono io, ed ho bisogno di mandare a puttane le cose, le persone.

Mi poggio quindi con i gomiti sul tavolo e mi piego verso di lui, abbasso la voce e gli dico:

«Ci ho preso, eh?»

«Non fare lo stronzo, Ian»

risponde lui a denti stretti.

«Non faccio lo stronzo, mi chiedo perché ti infastidiscano tanto i miei complimenti a quella gran gnocca»

insisto, tendendo le labbra in un sorriso sottile.

Lui scuote la testa, esasperato.

«Non sono i complimenti ad infastidirmi, ma il fatto che non sono affari tuoi quello che succede a quel tavolo»

ribatte, sempre più isterico.

«Andy, Andy, Andy» faccio ciondolare la testa «Continuo a non capire perché ti agiti tanto» mi porto una mano sul petto «Io sono stato mandato sulla terra con una missione. Se ignorassi quello che succede a quel tavolo, recherei disonore alla mia razza»

«La razza degli stronzi egocentrici?»

replica asciutto lui, tossicchiando una risata.

«No, la razza degli amatori» torno a guardare in direzione della ragazza «E credimi, quella ha tanto bisogno di un po’ d’amore»

Mi passo la lingua sulle labbra ed emetto un suono provocatorio con la gola.

«Ian…»

«Oh, andiamo Andrew!» sbotto, tornando a guardarlo «Fatti passare questa cotta da liceale nei miei confronti! Ogni parte di me ama le donne» abbasso di nuovo la voce «Ma anche avessi avuto gusti ambivalenti, tu non saresti rientrato nei miei canoni»

Appena termino la pessima battuta, so di aver raggiunto il mio scopo.

Andrew è livido, una vena a forma di Y gli si gonfia nel mezzo della fronte, pulsante.

Battendo i pugni sul tavolo si alza in piedi, il suo corpo sottile è teso e scosso da piccoli tremori. Mi ricorda un gatto soffiante e con il pelo irto. Gli manca la coda e sarebbe perfetto.

«Vai a farti fottere»

La voce è sottile quanto le sue labbra, scosse da piccoli tic.

Mi volto di nuovo verso la ragazza.

«Se quella ci sta, ti prendo in parola»

replico ghignante.

«Stronzo!»

sbraita lui poco prima di voltarsi e andarsene, lasciandomi da solo al tavolo.

“Sì, sono uno stronzo fatto e finito” mi dico.

Lo guardo andare via, nemmeno faccio finta di provare ad inseguirlo.

Andrew è il solo amico che ho, da sempre.

Tutti gli altri se ne sono andati via, stanchi, stufi di me e delle mie stronzate.

Lui invece, nonostante le fattezze esili ed un carattere fragile, ha dimostrato negli anni una tempra da far invidia anche all’uomo d’acciaio. Mi è stato affianco quando nemmeno io volevo stare con me. È rimasto lì, anche quando gli ho urlato con tutto il veleno che ho dentro, di andarsene via, di sparire.

Siamo cresciuti nella stessa città, a due case di distanza. Abbiamo frequentato le stesse scuole, lo stesso giro di persone, non le stesse ragazze, ovviamente.

Andrew ha avuto l’onore di vivere nel mio inferno abbastanza a lungo da puzzare anche lui di zolfo, eppure, nonostante le molteplici opportunità ed un biglietto di sola andata verso il suo meritatissimo paradiso, ha deciso di restare al mio fianco.

Ultimamente, però, mi pare stia arrivando al capolinea della sua pazienza.

Non so quanto resisterà ancora, e non so cosa farò quando la sua uscita di scena sarà definitiva.

Non è il caso di pensarci ora. Non mi va.

*****

“Una prigione dorata, ecco cos’è” penso “Questa relazione è una dannata prigione dorata”.

L’odore di limone e prezzemolo che sale dal piatto di insalata di mare, posizionato sotto il mio muso, inizia a darmi la nausea.

Non l’ho toccato per niente, sono rimasta a fissare lui, dedito al suo micro-mondo di messaggi e chiamate risposte sotto voce, magari nella stanza a fianco, o sul balcone, quando crede io dorma.

Allontano stancamente il piatto e mi abbandono contro lo schienale della sedia.

Lo guardo, lo osservo mentre rivolge ogni sua attenzione al led del telefono.

“Come abbiamo fatto a ridurci così?” mi chiedo.

Stiamo insieme da otto anni, conviviamo dalla metà del tempo, ed abbiamo smesso di parlare da non so quanto.

Non abbiamo proprio smesso, lui ha solo iniziato a dire di più al telefono che a me.

So cose della sua vita perché ascolto le conversazioni che ha con chiunque altro all’infuori di me, quando scrive, però, sono tagliata fuori. Non ho modo di leggere ciò che scrive, nonostante io sia abbastanza invisibile ultimamente. Potrei provare ad andargli alle spalle e sbirciare, forse non se ne accorgerebbe nemmeno.

Ogni tanto, quando la pelle inizia a prudermi da questa sensazione di esclusione, gli chiedo cosa ci sia tanto da ridere o da imprecare, ma lui risponde con un vago “Oh… niente… storia lunga! Poi ti dico”. Ma poi non mi dice niente. Mai. Ed io torno a bruciare nel mio stesso corpo, con la voce che mi sta diventando roca per il disuso.

Forse è colpa mia.

Ho smesso di insistere, magari pensa che abbia perso interesse. Dovrei dirgli che non è così, che voglio sapere tutto, che mi interessa, ma sono stanca.

Penso spesso a tutto quello che ancora ci lega ed ogni volta mi chiedo se ci amiamo, se lo amo.

Ovviamente la risposta è “sì”. Deve essere sì, lo amo. Non ci sono dubbi. Non possono essercene.

Se io non lo amassi e continuassi a starci insieme, sarei una di quelle donne patetiche che odio tanto, che trascinano una relazione solo perché hanno paura di stare da sole.

Ma non è il mio caso, non può esserlo.

Se avessi davvero paura di stare da sola, non starei certo con lui. Non a queste condizioni, comunque.

Sono seduta con il mio fidanzato, in un ristorante pieno di gente, eppure non credo di essere mai stata così sola. Lui non è davvero qui con me, le persone intorno non mi conoscono ed io non conosco loro, i camerieri sorridono cortesi, ma non mi guardano nemmeno in faccia.

Sono sola, invisibile.

Se dovessi sparire in questo istante dalla faccia della terra, nessuno qui dentro ricorderebbe la mia presenza. Il mio maglioncino di angora bianco, la mia gonna blu, i miei stivali di pelle marrone. Nessuno ricorderebbe il viso triste della ragazza con i capelli scuri, lasciati sciolti alla rinfusa, perché tanto lui non si sarebbe accorto della treccia o della coda che ho fatto troppe volte. Lui potrebbe dire che forse c’ero, perché era con me che doveva uscire, ma non ne sarebbe nemmeno sicuro.

Tutto ciò, premesso ci si accorgesse della mia assenza, ovviamente.

Perfetto. Nemmeno nelle mie fantasie riesco ad uscire dall’anonimato della mia esistenza.

“Come ho fatto a ridurmi così?” torno a chiedermi.

Scuoto la testa e sospiro rumorosamente.

Niente. Lui non se ne accorge. Nemmeno un tic istintivo che denoti il suo prendere coscienza della mia presenza, anche se in un angolo remoto del suo cervello.

I suoi occhi verdi, quegli occhi che mi hanno fatto perdere la testa sin dalla prima volta che si sono posati su di me, sono incollati, ipnotizzati a quel dannato aggeggio.

Sorride, si indigna, si sorprende… una miriade di emozioni indirizzate ad un mondo al quale io non sono invitata.

Forse dovrei lasciarlo. Anche se lo amo.

“Sì, lo amo”. Non posso non amarlo.

E lui mi ama pure. Deve amarmi.

Facciamo l’amore, ci teniamo per mano, ci manchiamo se non stiamo insieme, abbiamo una casa nostra, dei ricordi nostri.

Abbiamo smesso di parlare, è vero, ma ci amiamo. Ne sono certa. Deve essere così. La notte, lontano da quel telefono, le sue mani toccano me, le sue labbra baciano me, le sue braccia stringono me. Sì, l’amore c’è. Ci siamo solo persi la strada da percorrere insieme.

Devo dare una scossa a questa relazione, devo manifestare la mia intolleranza per questa situazione. Se sto zitta, se non gli dico che a me così non sta bene, lui penserà che può continuare ad ignorarmi, a tagliarmi fuori quando gli conviene.

Ed io mi avvelenerò fino ad avvelenare la nostra storia: passata, presente e futura.

Qualcuno batte i pugni su un tavolo e mi distrae dai miei pensieri.

Mi giro a guardare che succede, vedo un ragazzo molto magro e alto, ha i capelli corti e neri.

Si sta chinando a dire qualcosa a bassa voce al tizio seduto con lui e poi se ne va infuriato.

Provo a guardare con chi ce l’avesse, ma la zazzera bionda della tizia seduta tra i nostri tavoli mi blocca la visuale.

Guardo nuovamente verso la porta da cui è uscito il ragazzo magro, non sta tornando indietro e forse non tornerà.

“Deve essere un segno del destino” penso.

Mi scopro a provare invidia per il coraggio di quello sconosciuto, anche io vorrei battere i pugni sul tavolo, vomitare il mio disagio e andare via, non tornare indietro.

Capisco che non posso continuare così. Devo prendere in mano la situazione.

Se sono innamorata come credo, devo lasciarlo, o comunque minacciare di farlo. Devo fare qualcosa, devo ribellarmi. Devo smetterla di subire passivamente questa esclusione.

Torno con gli occhi su di lui. Nessuna sorpresa nel notare che non si è accorto della breve scenata accaduta ad un tavolo di distanza dal nostro.

Scuoto la testa ed inspiro profondamente, avvicino il piatto con la mia insalata di mare e la mangio tutta.

“Stasera lo lascio” decido.

Un sorriso mi tira le labbra. Strano.