Capitolo 2: Colazione.
Mi sveglio ed è ancora tutto estremamente buio.
I numeri rossi della sveglia sul comodino della commessa mi dicono, però, che sono quasi le 8 del mattino. Mi alzo piano e vado in bagno. Faccio la pipì e mi sciacquo il viso. Lascio la luce accesa ed apro la porta, tentando di trovare i miei vestiti nel buio della stanza.
Uno spicchio di luce arriva dritto sul viso della commessa. Sta dormendo pesantemente.
Ha tutti i capelli sul viso e la sottana le si è sollevata sui fianchi. Cazzo quanto è magra.
Distolgo lo sguardo, recupero i jeans e la maglia, e scendo al piano di sotto. Ho bisogno di un caffè.
La casa è bellissima, tutta arredata alla perfezione, i colori delle pareti sono totalmente in contrasto con quelli della camera della commessa. C’è un profumo di pulito e deodorante per ambienti, un odore pungente e dolciastro al contempo. Buono. Scendo le scale e trovo la cucina, alla sinistra dell’entrata. Inizio ad aprire cassetti a caso, in cerca del caffè.
Qualcuno si schiarisce la gola alle mie spalle. Mi giro di scatto, la dea è poggiata allo stipite della porta, ha i capelli raccolti in una coda ed indossa un pigiama di cotone verde.
È proprio bella.
“Se la commessa fosse ancora in carne, sarebbe più bella, però” penso.
Lei mi fissa con le sopracciglia alzate.
«Cercavo il caffè»
le faccio sapere.
«Scaffale alla tua destra, terzo ripiano in basso»
Con un cenno del capo la ringrazio.
«Hai dormito qui, eh?»
Annuisco.
«Non ho solo dormito»
Lei soffoca una risata.
«Questa sì che è bella…»
La guardo da sopra la spalla.
«Non è mica vergine, la tua amica»
«Non devi dirmelo tu, questo»
«Ah già» faccio, ricordandomi il commento della commessa «Mi ha detto che è passato del tempo dall’ultima volta»
«Wow!» fa lei «Ti ha anche detto qual è il suo colore preferito?»
Mi giro ed incrocio le braccia sul petto.
«No, abbiamo usato la bocca per fare altro, se sai cosa intendo. Ma se devo buttar lì un’ipotesi, direi: rosso!»
Lei scuote la testa.
«Lei odia il rosso» si avvicina e mi prende la caraffa dalle mani, finendo di preparare lei il caffè «Ti fermi ancora per molto?»
Corrugo la fronte.
«No, direi proprio di no. Un caffè ed evaporo»
Lei pare soddisfatta da questa risposta.
«Hey»
La voce della commessa arriva alle nostre spalle, ancora impastata dal sonno.
«Hey, Lis»
la saluta l’amica.
Già, la commessa si chiama Lisa.
«Hey»
dico anche io.
Lei solleva una mano mentre con l’altra si stropiccia la faccia. Sbadiglia e si lascia cadere su uno sgabello.
«Dimmi che il caffè è pronto»
dice affondando la testa tra le braccia, incrociate sul bancone.
L’amica le si avvicina e le dà un bacio sulla testa.
«Un attimo ed è pronto, tesoro»
La commessa annuisce.
C’è qualcosa di materno nei modi dell’amica, e la commessa sembra proprio uno scricciolo.
*****
Mi sveglio da sola nel letto, la porta del bagno è aperta e la luce accesa.
Ci metto un attimo a ricordarmi cosa è successo ieri sera.
Mi alzo e vado in bagno. Libero la vescica e la fitta che sento mi conferma che non è stato un sogno, anche perché io non sogno mai, per fortuna. Mi sciacquo il viso e scendo in cucina.
Ali e Ian stanno parlando accanto alla macchina del caffè. Li saluto e loro ricambiano.
C’è troppa luce, troppo rumore, troppo tutto. Mi siedo sullo sgabello ed affondo la testa tra le braccia. Non sono stanca, ma tornerei nel letto, al buio, al silenzio.
Chiedo ad Ali se il caffè è pronto e lei mi dice che manca poco, poi mi bacia la testa.
Questi gesti d’affetto in genere mi soffocano un po’, come se fossero troppo da gestire, ma stamattina mi piace. Forse è perché ieri sera ho fatto sesso e queste sono le coccole a scoppio ritardato.
Il caffè esce ed è Ian a portare due tazze piene di liquido nero fumante, per me ed Ali.
Lo ringrazio ed inspiro l’odore pungente del caffè. Soffio per farlo raffreddare.
«Oh! Tutto bene con Andy?»
chiedo ad Ali, lei ride.
«Sì, sì. Ci abbiamo messo una vita ad arrivare dall’altra parte della città, ma è andato tutto bene»
«Gli dico sempre che non sa reggere l’alcool» interviene Ian «Col suo fisichetto asciutto deve stare attento»
«Sì, è troppo magro»
concordo.
Ian ride.
«Senti chi parla»
Lo guardo stranita.
«Io non sono troppo magra»
Lui solleva le sopracciglia e china la testa di lato.
«Ti ho contato le ossa una ad una stanotte»
poso la tazza sul banco.
«Non sembrava darti fastidio»
«Non ho detto che mi ha dato fastidio» mi dice «Ma tu sei magra, troppo. Eri più in forma tre anni fa»
Cazzo. Di nuovo con questa storia. Gli occhi di Ali schizzano da lui a me, febbrili. Mi sta per venire mal di testa. Sospiro.
«Mangerò di più, allora»
Lui sembra colpito.
«Inizia da ora. Dove tenete le cose per la colazione?»
chiede ad Ali che ci osserva con un nuovo interesse.
«Non dovevi evaporare dopo il caffè?»
ribatte lei, ma si vede che non è contraria alla presenza di Ian, come cinque minuti fa.
«La tazza è ancora piena» dice lui «Ed ora rispondi per favore»
Ali si alza dal suo sgabello, si avvicina al frigorifero senza staccarci gli occhi di dosso. Inizia a tirare fuori uova, pancetta, latte, cereali, frutta.
«State facendo sul serio?»
chiedo, vedendo Ian avvicinarsi a lei sfregandosi le mani.
«Non mi sta molto simpatico» risponde Ali «Ma ha ragione, devi mangiare di più»
Non so cosa stia succedendo, ma mi sento di colpo esausta. Ho bisogno di starmene un po’ per i fatti miei, con la solitudine della mia testa. Tutte queste interazioni mi stanno facendo bruciare la pelle.
*****
Non so perché le sto preparando la colazione e non so perché ancora non me ne vado.
Ma lei ha detto che avrebbe mangiato di più ed io voglio ingozzarla.
Che cosa stupida. Ma l’immagine della ragazza seduta con il coglione è ancora vivida nella mia testa. Capisco che voglio rivederla così, almeno un’altra volta.
L’amica della commessa mi aiuta a preparare una colazione abbondante, quando mettiamo tutto sul piano mi rendo conto che la commessa è rimasta lì immobile, a fissare la sua tazza di caffè per tutto il tempo.
Non si è mossa, non ha bevuto, non ha fiatato. È rimasta solo lì. Come un robot spento.
Le metto sotto il muso un piatto con uova, bacon, pancake e arance sbucciate.
Lei solleva lo sguardo su di me, batte le palpebre un paio di volte e sembra riaccendersi, proprio come un fottuto robot.
«Grazie»
dice, ed inizia a mangiare.
Mi siedo di fronte a lei e la guardo ingurgitare cibo. Mangia tutto con gusto e mi chiedo come sia possibile che una con una fame così, sia tanto magra. Guardo l’amica che la osserva con tanto di quell’amore che io mi sentirei soffocare.
«Hey» dico «Non sei una di quelle che poi va a vomitare tutto, vero?»
Lei si blocca con la bocca piena, mi fissa e poi scoppia a ridere, sputacchiando pezzi di pancake.
Quando riprende fiato si pulisce la bocca.
«Ma che diavolo ti passa per la testa?»
Allargo le braccia e la indico.
«Mangi come Obelix e sei uno scheletro! I miei dubbi sono più che plausibili»
Lei annuisce e manda giù il resto del boccone con un sorso di caffè.
«Beh, no» risponde «C’è solo un modo in cui questo cibo uscirà dal mio corpo, e non è attraverso la bocca»
Scoppio a ridere. Questa ragazza non ha nessun interesse per le etichette. Non è rozza, non la definirei sboccata o volgare, ma dice cose che mi aspetterei di sentire da un amico durante una gara di rutti. Magari se glielo chiedo me ne fa anche uno in faccia. Finisco il caffè e mi alzo.
«Beh, io ho fatto, recupero le scarpe e sparisco. È stato un piacere»
La commessa mi fa un cenno con la testa e continua a mangiare, l’amica mi rivolge un sorriso finto ed uno sguardo di fuoco.
Come ho fatto a trovarla bella? Adesso, alla luce del giorno, senza musica e luci a intermittenza la vedo perfettamente. Non è brutta, ma c’è qualcosa sotto la superficie, un’ombra che si muove sotto la pelle. La sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato nel suo aspetto torna forte a pulsarmi in testa, ma non ho tempo o voglia di approfondire. Ho già una missione, un obiettivo. Magari, quando avrò finito con la commessa, potrei vedere se mi è rimasto terreno da potermi lavorare anche l’amica.
Salgo al piano di sopra. La finestra della camera è aperta, la stanza è invasa dalla luce del sole.
Il soffitto rosso incombe su tutto il resto come un presagio. Mi chiedo come possa una odiare tanto questo colore e viverci immersa. Scuoto la testa e vado alla ricerca dei miei stivali.
Cerco per tutta la stanza e sotto il letto. Nessuna traccia degli stivali, ma il mio cervello registra un dato bizzarro: non c’è nessuna foto.
Guardo meglio, e sì, nessuna foto. Scrollo le spalle e torno a scrutare gli angoli per trovare le scarpe. «Cerchi questi?»
La voce della commessa mi fa sussultare. Mi giro ed è sulla soglia con in mano i miei Camperos neri.
*****
«Santo cielo, Lis, è un cretino»
mi dice Ali mentre mangio un pezzo di pancake.
La guardo e deglutisco.
«Quindi?»
«Quindi… credevo che ti saresti scelta uno, non so»
«Uno, cosa?» chiedo «Non sono in cerca del principe azzurro, nel caso ti fosse sfuggito»
«Lo so, lo so. È solo che»
Ancora questa storia. Che palle.
«Senti Ali, è figo, scopa da favola e sparirà dalla mia esistenza non appena si sarà messo le scarpe, è semplicemente perfetto»
«Ok» replica con calma «Ma io credevo, non so, che avresti puntato un po’ più in alto, ecco»
Sollevo un sopracciglio.
«Più in alto rispetto a cosa? O a chi?»
apre la bocca ma io le parlo sopra
«Ali, per favore, smettila»
mi alzo e vado via. Questa mattina sta esaurendo le mie energie. Troppe parole, troppa gente, troppi occhi. Sto iniziando a pentirmi di aver portato Ian a casa. Anzi, no. Mi sto pentendo di avergli concesso di dormire qui. Se lo avessi mandato via, stamattina non avrei dovuto subire tutto questo.
Ai piedi delle scale vedo le scarpe di Ian, le raccolgo e gliele porto.
Lo trovo chino sotto la scrivania.
«Cerchi questi?»
gli dico. Sussulta e si gira. Annuisce e si alza.
«Non ricordavo di averli tolti giù»
Mi dice prendendo in mano gli stivali.
«Sapessi quante cose non ricordo io»
Lui inarca un sopracciglio.
«Quello che abbiamo fatto a letto, però, te lo ricordi, vero?»
Mi viene da ridere, gli batto una mano sul petto e lo rassicuro.
«Non preoccuparti Ian, sei stato fantastico»
Lui ride soddisfatto.
«Meno male, per un attimo ho temuto di aver fatto una prestazione a vuoto»
Scuoto la testa ed entro in stanza, lui mi si avvicina lesto.
«Sicura, sicura di ricordarti proprio tutto?»
mi sussurra all’orecchio, una sua mano si poggia sul mio ventre e scivola pericolosamente giù. La blocco. Lui è eccitato. Io no, per niente.
Ripenso però al sesso di stanotte e un guizzo caldo mi si muove tra le cosce. Lui resta fermo dietro di me, la sua erezione cresce contro il mio fondoschiena. La mano non si muove, resta ferma, ma il calore dei polpastrelli supera il cotone della camicia da notte ed il ricordo di quanto bene mi hanno toccato mi spinge a leccarmi le labbra. Il suo respiro si fa più intenso.
Mi girò tra le sue braccia, come ho fatto ieri notte. I suoi occhi sono lì, accesi di desiderio. Vorrei sapere cosa c’è nei miei. O forse no.
«Si può sempre fare una verifica»
dico, avvicinandomi alla sua bocca. Lui sogghigna.
«Senti, chiudi la porta e spogliati»
gli ordino prima che se ne esca con qualche frase in grado di farmi cambiare idea. Ancora ho quel gattina incollato nelle orecchie. E devo assolutamente rimuoverlo. Dopo, con la doccia, laverò via tutto, stanotte, adesso, lui.
Mi guarda un secondo, interdetto dai miei modi. Ma nemmeno lui sembra in vena di giochetti, mi stacca le mani da dosso e va verso la porta. Io, non so perché, perdo l’equilibrio per una frazione di secondo. Mi sento cadere, risucchiata dalla voragine che si è aperta sotto i miei piedi. Dura poco, o forse un’eternità, ma quando lui si gira di nuovo verso di me, ritrovo stabilità. Non ho il tempo di dirgli che ho cambiato idea e che può andarsene, si sta già slacciando i pantaloni dopo aver fatto evaporare la maglia con un gesto fulmineo. Risolverò tutto dopo con la doccia.
