Capitolo 4
Era una stanza spartana e arredata solo col necessario, un tavolo in laminato piuttosto malridotto, una sedia soltanto e una scaffalatura in ferro grigio che pareva crollare sotto il peso di tutti quegli schedari.
Era una cosa assurda che non avessero pensato ad informatizzare tutto quanto, eppure dopo aver conosciuto David Smith non le era sembrato tanto strano.
Quell’uomo era ancora legato ad una forma arcaica di punizioni, nonché ad una sequela di regole disciplinari che avrebbero fatto discutere la maggior parte degli addetti di quel settore.
Helena spese l’intera giornata a catalogare le cartelle dei detenuti secondo l’ordine alfabetico, non ebbe nemmeno il tempo di consultarle, poiché quel primo giorno lo aveva riempito a firmare scartoffie e protocolli che il segretario del Direttore le aveva fatto pervenire con una precisione temporale, tale da rasentare la completa paranoia.
In quel caos di polvere e solitudine, Helena si domandò il perché avesse scelto quel lavoro senza battere ciglio; la risposta c’era, ma era radicata in fondo alla cantina del suo cervello e lei avrebbe avuto tutta l’intenzione di lasciarla lì, nascosta nel buio, per sempre.
Non desiderava che qualcuno la conoscesse così in profondità, non voleva intessere legami e relazioni che l’avrebbero costretta a scoprirsi, e il carcere rappresentava il posto giusto.
Lì i detenuti erano solo numeri; essendo rinchiusi tra quattro mura possenti non avrebbero mai potuto concedersi il lusso di portare avanti una sorta di relazione umana, perché, semplicemente, non ne avrebbero mai avuto la possibilità.
Quindi si sentiva al sicuro, ecco perché aveva accettato, quel lavoro le stava addosso come uno di quei vestiti fatti su misura.
Ma c’era qualcosa che, nonostante tutto, le impediva di vivere secondo i suoi canoni, qualcosa che si risvegliava e gridava disperatamente per farsi ascoltare: il suo cuore.
Helena aveva amato solo una volta, ma quell’amore sbocciato dal nulla senza pretese e pianificazioni, l’aveva prosciugata così tanto fino a indurla a fuggire a New York.
Steave Rocwell era stato imperdonabile con lei, l’aveva conquistata col suo fascino, l’aveva frequentata per qualche mese, scopandola come mai nessuno prima aveva fatto, poi l’aveva lasciata per un’altra donna senza più farsi vedere.
Non era stato il tradimento in sé a logorarla, a farla soffrire a lungo, ma piuttosto la noncuranza da parte di lui di averla gettata via, come se fosse stata un oggetto senza importanza, un oggetto da buttare nella spazzatura.
Da lì in poi il suo cuore si era spezzato e il trasferimento a New York le era sembrata la cosa giusta da fare.
Ed ora non avrebbe mai più rischiato nulla, l’amore, al momento, era un capitolo chiuso e i suoi desideri si erano focalizzati solo su un futuro fatto di lavoro e di impegni.
Al crepuscolo lasciò la stanza del penitenziario e si diresse verso il suo piccolo appartamento affittato da qualche mese.
Eppure, quella notte fu molto agitata, si rotolò continuamente nel letto, senza accorgersi che, quell’ incarico, le aveva inevitabilmente mandato l’adrenalina alle stelle.
In fondo avrebbe incontrato “quei criminali” di persona, e non sarebbe stata una passeggiata, anche se, nonostante lo sforzo di reprimere i propri sentimenti, lei era attratta dalle emozioni forti, perché facevano parte della sua natura, una natura all’apparenza sobria e cristallina, ma che in fondo celava risvolti inattesi.
C’erano state delle volte che avrebbe voluto cedere, ma il rischio di soffrire e di restare scottata, aveva sempre avuto la meglio, impedendole di cedere a quel desiderio recondito.
Così aveva semplicemente spento sul nascere ogni singolo sentimento, ogni singola emozione che il suo cuore tentava inutilmente di far uscire.
Ma noi non siamo i padroni del nostro destino, non abbiamo il potere di dominare gli elementi, elementi in grado di scuotere il cuore fino a farlo sanguinare, lasciando sulla loro scia soltanto dei lividi indelebili.
