CAPITOLO TRE
Corro.
I miei piedi affondano leggermente nella sabbia bagnata, lasciando impronte che le onde si affrettano a cancellare. Il vento soffia contro di me, portando con sé l'odore salato dell'oceano, e per un attimo mi sembra di fuggire dalla realtà. La distesa infinita di acqua che si infrange sulla battigia è la mia unica compagnia, eppure anche qui, in questo angolo di mondo lontano, le parole di mio padre riecheggiano nella mia mente, come un temporale che non vuole andarsene.
Vorrei non aver mai saputo. Non aver mai ascoltato ciò che aveva da dirmi. La verità, mi dico, non è sempre la scelta giusta. A volte sarebbe meglio vivere nell'ignoranza, perché certe cose, una volta scoperte, ti tolgono la pace.
Mi fermo ansimante, piegato sulle ginocchia, il respiro pesante. Poi mi lascio cadere a terra, seduto sulla sabbia fredda. Affondo le mani nei granelli umidi, sentendo come si infilano sotto le unghie. Guardo l'orizzonte. L'oceano sembra non finire mai, la sua vastità mi sovrasta, e per un istante, mi illudo che possa assorbire tutto il mio dolore.
«È bello, non trovi?»
Una voce femminile mi distoglie dai miei pensieri. Mi volto di scatto e incrocio lo sguardo di una ragazza che non avevo notato avvicinarsi. Si sta sedendo accanto a me, le ginocchia raccolte al petto, come se cercasse anche lei conforto in quel freddo pomeriggio. La osservo di sfuggita. È bellissima, con un’aria malinconica che mi colpisce più di quanto vorrei ammettere.
«Fa freddino, vero?» domanda di nuovo, cercando di rompere il silenzio.
Vorrei essere solo, ma c'è qualcosa in lei che mi trattiene dal respingerla. È come se la sua presenza, per quanto inattesa, fosse naturale. La sofferenza che intravedo nei suoi occhi riflette la mia, e per un attimo, mi sembra che le nostre anime siano affini.
«Già,» rispondo in tono spento, sperando che capisca il messaggio. Ma lei rimane lì, accanto a me, a fissare l’oceano.
«Non ti ho mai visto da queste parti,» dico alla fine, accettando il fatto che non se ne andrà tanto facilmente. «Sei di passaggio?»
Si volta verso di me e mi sorride. I suoi occhi brillano di una luce triste, e il vento scompiglia i suoi capelli, portandomi addosso un leggero profumo di vaniglia e cocco.
«Sì,» sospira, rivolgendosi di nuovo all’oceano, o forse oltre, come se cercasse qualcosa che non può vedere.
«Stai da parenti?» chiedo, continuando a fare domande per riempire il silenzio, anche se potrei sembrare invadente.
Lei si stringe nelle spalle, abbracciandosi le gambe. «No, abito da sola.»
Il suo tono è appena un sussurro, ma le parole mi colpiscono. Mi volto a guardarla più attentamente, studiando il suo profilo. Ha il naso delicato, le labbra piene e rosse, e una chioma ribelle che sembra vivere di vita propria sotto il vento. È una bellezza diversa, naturale, che si discosta da quelle perfezioni costruite che si vedono ovunque.
«Non sembri felice,» dico infine, incapace di trattenere la mia osservazione. «Io farei di tutto per stare da solo, ora come ora.»
Lei si volta verso di me, sorprendendomi con uno sguardo intenso. «E allora perché non lo fai?»
La sua domanda mi lascia spiazzato. Apro la bocca per rispondere che non sono affari suoi, ma mi rendo conto che in fondo ha ragione. Sono stato io a cominciare questa conversazione, a intromettermi nella sua solitudine.
«Benjamin,» dico allungando la mano verso di lei. Forse, presentarsi è il modo giusto per riportare la conversazione su un piano più neutrale.
«Primavera,» risponde, stringendo la mia mano.
Il contatto delle nostre mani è caldo, in contrasto con il vento freddo che soffia sulla spiaggia. Il suo nome mi scivola tra le labbra come una melodia. «Primavera,» sussurro, come se assaporassi il suono.
Lei sorride, quasi divertita. «Sì, come la stagione.»
Alzo un sopracciglio, confuso dal suo nome insolito. Lei nota il mio sguardo e aggiunge: «Mia madre adora l'Italia. È fissata con tutto ciò che riguarda quel paese. Il cibo, la lingua, perfino i gesti che fanno quando parlano. Quando ha scoperto il nome 'Primavera', era incinta di me e ha deciso che era perfetto, perché stava uscendo da un brutto periodo. Era come se io fossi la sua rinascita.»
Annuisco, riflettendo sulle sue parole. «Un bel significato,» mormoro, mentre i miei occhi tornano a perdersi nell'oceano.
«Già,» dice lei, stringendosi nelle spalle, quasi imbarazzata da tutta questa condivisione. Abbassa lo sguardo, fissando la sabbia sotto di noi, come se cercasse una via di fuga dalle emozioni che ha appena rivelato.
Non posso fare a meno di ammirarla ancora. C’è qualcosa di magnetico in lei, non solo la sua bellezza, ma quel modo in cui sembra contenere un intero mondo dentro di sé. Un mondo che non ha ancora rivelato.
D’improvviso, si alza, spolverandosi i pantaloni e sfilandosi le scarpe. Con un gesto rapido, solleva i pantaloni fino a metà polpaccio e si avvicina all’acqua. La osservo senza capire cosa stia facendo, fino a quando i suoi piedi nudi entrano in contatto con l’oceano gelido.
Non dice nulla, ma continua a guardare l’orizzonte con un sorriso appena accennato sulle labbra. Poi si volta verso di me, con quel sorriso che sembra riempire il mondo.
«Vieni anche tu!» mi chiama, facendomi segno di avvicinarmi.
Esito, ma alla fine mi tolgo le scarpe e la seguo. L’acqua è gelida, ma c’è qualcosa di liberatorio nel sentire il freddo che intorpidisce i piedi, quasi come se il gelo potesse congelare anche i miei pensieri.
Corriamo insieme lungo la riva, calciando le onde e ridendo. La sua risata è contagiosa, e per la prima volta in giorni, mi ritrovo a sorridere sinceramente.
«Ci prenderemo un malanno!» le dico, cercando di riprendere fiato.
Lei ride ancora, scuotendo la testa. «Sei troppo giovane per preoccuparti di queste cose!»
Mi fermo, guardandola. C’è una leggerezza in lei, un’energia che mi fa sentire come se potessi dimenticare tutto, anche solo per un momento. Forse è quello che mi serve davvero: smettere di pensare, smettere di soffrire, e semplicemente... essere.
