CAPITOLO DUE
«Certo che potevi anche parcheggiare più vicino,» gli faccio notare, alzando un sopracciglio mentre osservo la lunga distesa di cemento che dobbiamo percorrere.
John sorride, tirando fuori le chiavi dalla tasca dei jeans, e mi dà una leggera gomitata sul fianco. «Camminare fa bene, pigrone. E poi, dovresti andare in palestra, perché non ti iscrivi?» domanda, con quell’aria che sfiora il sarcasmo ma resta preoccupata.
Sbuffo, cercando di mantenere il tono rilassato. «L’hai appena detto, sono un pigrone, no? E poi lavoro.» La mia voce è monotona, quasi meccanica, mentre gli occhi vagano per il parcheggio, come se cercassero qualcosa che possa distrarmi da questa conversazione. La conosco già, è sempre la stessa, e so dove vuole arrivare.
John scuote la testa e sorride ironicamente, quasi infastidito dal mio tono. «Lavori part-time in un negozio di ferramenta, puoi benissimo andare in palestra nel pomeriggio.» Le sue parole, apparentemente innocue, mi colpiscono come un macigno.
Mi fermo per un secondo, il cuore accelera e la frustrazione monta dentro di me. Vorrei che smettesse di fare domande stupide. Vorrei che ricordasse, una buona volta, perché non posso. «Sai già che non posso,» dico, alzando la voce più di quanto avrei voluto. Gli occhi si abbassano, sento le mani stringersi a pugno, le unghie che si conficcano nel palmo. Non voglio esplodere, non oggi.
Lui si irrigidisce, e c’è un breve silenzio tra di noi, mentre continuiamo a camminare verso l’auto. Lo vedo che si tormenta il labbro inferiore, sta cercando le parole giuste. «Lo so, scusa. Non volevo minimizzare la situazione è solo che…» fa una pausa, prende un bel respiro, e io trattengo il mio. Non ho idea di cosa stia per dire e già so che non mi piacerà. «Devi vivere, Ben. Ti stai privando di troppe cose in questo periodo e penso che tua madre non vorrebbe vederti fare questi sacrifici. Sono preoccupato.»
La sua preoccupazione mi irrita. Non lo capisce. Non può capire. Nessuno lo può. Mia madre, cazzo, è mia madre! «Davvero? Perché non sembra. Comunque, ho già mio padre e Susan che la seguono quando non ci sono io. Non voglio estranei con lei, lo sai bene. E non voglio più affrontare l’argomento.» La mia voce è più fredda di quanto mi aspettassi. Non cerco comprensione, voglio solo silenzio.
John annuisce serio, e finalmente mette in moto. Il silenzio cala nell’auto come una coperta pesante, imbarazzante, ma allo stesso tempo necessaria. Fissiamo la strada davanti a noi, io per non dover più parlare, lui forse per non fare altre domande.
Quando parcheggia davanti all’ospedale, apro lo sportello e mi blocco. «Ci sarai questa sera, vero?» mi chiede con un tono quasi implorante. So che teme una mia fuga, una mia assenza. Ma stavolta no, non posso lasciarlo da solo. Non oggi.
Prendo la torta dal sedile posteriore e lo guardo negli occhi. «Ci sarò, non preoccuparti,» rispondo piano, cercando di dargli quel minimo di rassicurazione. Lui sorride, sollevato, e parte appena chiudo lo sportello. Lo guardo allontanarsi mentre respiro profondamente l’aria densa di odori di ospedale. È un misto di disinfettante e stanchezza, di speranza e dolore.
Mi avvio a passo spedito verso l’ingresso. Il rumore delle suole contro il pavimento mi sembra assordante, quasi come se volesse coprire i pensieri che continuano a rimbalzare nella mia testa. Non sono pronto. Ma quando lo sarei mai?
Raggiungo il piano superiore e seguo il corridoio fino alla stanza venticinque. Apro la porta senza bussare, come ho sempre fatto. E mi blocco.
Il tempo sembra fermarsi. Il respiro si ferma. Il cuore smette di battere per un attimo interminabile. La torta mi scivola dalle mani e cade a terra con un tonfo sordo. La confezione di cartone si rompe, eppure è come se non riuscissi a muovere un muscolo, come se fossi intrappolato in una statua di marmo.
Quello che vedo davanti a me mi disgusta. Non riesco a credere ai miei occhi, eppure non posso distoglierli. Mio padre e Susan. La migliore amica di mia madre. Si guardano, imbarazzati, mentre io fisso la scena, incredulo.
«Ditemi che ho visto male,» sussurro, incapace di dare un senso alle emozioni che mi attraversano. La rabbia monta velocemente, ma è mescolata a disgusto, tradimento, dolore.
«Noi non...» Susan tenta di parlare, ma la sua voce si spegne subito. Non osa guardarmi negli occhi, mentre mio padre si schiarisce la voce.
«Figliolo...» Il suo tono è incerto, e mi fa solo innervosire di più.
«Da quanto va avanti questa pagliacciata?» domando, disgustato, il cuore che batte così forte da farmi male al petto.
Il silenzio che segue la mia domanda è assordante. Mio padre abbassa lo sguardo, mentre Susan si stringe le mani nervosamente, quasi cercando le parole giuste per difendersi. Ma non ci sono parole giuste, non in questa situazione.
«Non è come sembra...» inizia mio padre, ma lo fermo subito, alzando una mano. Non posso ascoltare queste giustificazioni. Non dopo quello che ho visto.
«Non è come sembra? Ti stai baciando la migliore amica di mamma mentre lei è in coma e mi dici che non è come sembra?» La mia voce è tagliente, tremante, e sento le mani che si stringono di nuovo a pugno, cercando di controllare la furia che mi sta consumando. Ogni parola che pronuncio mi sembra un coltello che affonda più a fondo nel petto.
Susan si fa avanti, la sua voce un sussurro. «Ben, ascoltami... noi non volevamo... è stato un errore, non doveva succedere.»
«Un errore?» Ripeto con amarezza, ridendo incredulo. «E quanto tempo va avanti questo... errore?» Ogni fibra del mio corpo vorrebbe urlare, vorrebbe distruggere qualcosa, qualsiasi cosa, per placare il fuoco che mi brucia dentro.
«Non volevo che lo scoprissi così,» dice mio padre, cercando di avvicinarsi, ma io faccio un passo indietro, come se il solo tocco potesse contaminarmi. Non riesco a guardarlo. Non riesco a guardare lei. Questo non può essere reale. «Non c'è nulla che io possa dire per giustificare ciò che hai visto, lo so. Ma non volevo farti del male, né a te né a tua madre.»
Il suo tono è pieno di rimorso, ma tutto ciò che sento è rabbia. «Non volevi farci del male?» ripeto, con una risata amara. «Be', hai fatto un lavoro splendido allora. E Susan?» La guardo, sperando che almeno lei abbia qualcosa da dire, una spiegazione che possa mettere tutto a posto, anche se so che non esiste. «Tu? Cos'hai da dire? La tua migliore amica è in coma e tu la tradisci così?»
Susan distoglie lo sguardo, le sue spalle tremano leggermente, come se la mia rabbia fosse troppo per lei da sopportare. Ma non posso provare compassione, non adesso.
«Mi dispiace, Ben. Mi dispiace così tanto...» sussurra, e per un attimo vedo le lacrime negli occhi. Ma non bastano. Le sue scuse, le sue lacrime, non bastano a cancellare ciò che ho visto. Non basteranno mai.
Prendo un respiro profondo, cercando di calmarmi, ma è impossibile. L'aria sembra troppo densa, ogni respiro un peso. «Non ho più niente da dirvi.» Mi volto e mi dirigo verso la porta, ignorando i loro tentativi di fermarmi.
Le loro voci mi inseguono lungo il corridoio, ma io non riesco più a sentirle. Le parole si fondono in un rumore di fondo indistinto mentre cammino sempre più velocemente, fino a che la porta dell'ospedale si chiude dietro di me.
Mi fermo appena fuori, prendendo un respiro profondo, e mi appoggio al muro freddo dell'edificio. La rabbia non si è placata, ma almeno ora posso respirare.
Guardo il cielo grigio sopra di me. Piove leggermente, piccole gocce che si appoggiano sul viso come lacrime che non riesco a versare. Sono solo.
Solo con il peso del tradimento.
