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CAPITOLO QUATTRO

Le lancette dell’orologio scorrono inesorabilmente, ma accanto a lei il tempo sembra fermarsi. Non mi pento dell’ora passata in sua compagnia. Anzi, quei minuti rubati alla mia giornata mi hanno fatto bene. Primavera, con il suo sorriso gentile e le sue parole leggere, è riuscita a farmi dimenticare per un attimo il peso che mi porto dentro. Sorrido, scuotendo la testa, sentendomi un po’ stupido per aver sorriso così tanto.

«Primavera» sussurro tra me e me, assaporando il suono del suo nome. È così diverso, così fresco, come una boccata d’aria pulita in una giornata soffocante. È bello, originale, come lei.

Torno a concentrarmi su mia madre. La stanza è silenziosa, rotta solo dal ritmo costante del monitor che segnala i suoi battiti deboli. Il sole filtra attraverso le persiane semiaperte, gettando una luce calda sulla sua figura immobile. Le prendo la mano, sento la sua pelle fredda sotto le mie dita. La guardo attentamente, come se volessi cogliere ogni piccolo movimento, un segno che sta tornando.

«Non so come fare...» le dico sottovoce, temendo di svegliarla, anche se so che è impossibile. «Jennifer... te la ricordi, mamma? Anche da bambina era bellissima, lo dicevi sempre.» La mia voce si rompe, e con delicatezza inizio a lisciarle i capelli. «Ricordi quando avevo tredici anni e mi hai detto che dovevo parlarci? Io ti risposi di farti gli affari tuoi. Quanto ero stupido... avrei dovuto ascoltarti.»

Sospiro, il ricordo mi strazia. La sensazione di aver perso un’occasione che non tornerà mai più mi pesa sul cuore. «Jennifer è sempre stata fuori dalla mia portata, e forse lo è ancora. È fidanzata, mamma, e io... so che non ho speranze. Tu dicevi sempre che niente è irraggiungibile, che avrei dovuto provarci. Ma io... io ho sempre avuto paura.»

Le lacrime mi offuscano la vista. Mi asciugo con il dorso della mano, cercando di mantenere la calma. Con delicatezza, le sistemo i capelli dietro le orecchie, come piaceva a lei. Le accarezzo il volto con il dorso della mano, il suo viso sembra così sereno, così lontano da tutto questo dolore.

«Mi manchi, mamma» mormoro, piegandomi a darle un bacio leggero sulla fronte. «I medici dicono che potresti riprenderti. Io... spero che tu possa sentirmi, spero che questo ti aiuti a tornare da me.»

Mentre mi allontano dal letto, il suono delle infermiere che entrano nella stanza mi costringe a tornare alla realtà. Alzo lo sguardo e vedo mio padre, seguito da Susan. Mi stringo nelle spalle, scoccando loro un’occhiata fredda, e poi esco velocemente dalla camera.

Le parole di mio padre mi risuonano ancora nelle orecchie, crude e taglienti:

«Voleva lasciarmi per un altro. Quel giorno abbiamo litigato, e lei è uscita di casa arrabbiata. Io non volevo tradirla, ma lei... non mi amava più. Non so cosa mi sia passato per la testa. Volevo solo ripagarla con la stessa moneta.»

Mi allontano a passi pesanti, quasi correndo lungo il corridoio dell’ospedale. Il peso di tutto questo è troppo, troppo da sopportare. Ho bisogno di aria, di scappare da quei pensieri che mi schiacciano. Forse impazzirò, forse finirò per crollare. Ma non posso. Non ora. Mamma ha bisogno di me, della mia forza. So che può sentirmi, e so che ogni mia visita potrebbe fare la differenza.

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Steso sul letto della mia camera, aspetto che John mi chiami. Ho bisogno di staccare, di dimenticare tutto anche solo per qualche ora. Il cellulare vibra accanto al mio orecchio e rispondo subito.

«Ehi, sei pronto?» La voce allegra di John è come un’iniezione di energia. Ho bisogno di questa serata per distrarmi, per lasciare da parte il caos nella mia testa.

«Mai stato così pronto» rispondo, forzando un tono allegro mentre mi alzo dal letto di scatto.

«Due minuti e sono da te.»

Chiudo la chiamata, mi infilo rapidamente una camicia bianca, jeans e giacca nera. Mi spruzzo un po' di profumo e controllo i capelli allo specchio. Quando esco di casa, John ha appena parcheggiato davanti al vialetto. Sento subito un odore dolciastro che mi invade le narici appena salgo in macchina.

«Chi ha fumato una canna?» chiedo, guardando di sbieco Eddy, Zac e John.

Fanno finta di nulla finché Zac non tira fuori la sigaretta e me la passa con un sorriso. «Te ne abbiamo lasciata un po’.»

Sollevo un sopracciglio e prendo la canna. «Che amici generosi che ho!» esclamo, facendo un tiro. Il fumo mi invade i polmoni, e chiudo gli occhi, lasciando che la tensione si allenti.

«Dovresti ringraziarci» dice John con un sorriso furbo.

«Lo sto facendo» rispondo, restituendo la sigaretta. Mi sforzo di essere di buon umore, ma non posso fare a meno di notare lo sguardo complice che John lancia agli altri.

«Ehi, Ben...» La voce di John ha un tono malizioso. «Verranno anche le ragazze.» Sorride e tira un pugno in aria come se avesse appena vinto una battaglia.

«Hai la faccia di uno che non pensa a niente di buono» lo prendo in giro, ma dentro di me sento già un leggero fastidio.

«Ci sarà anche Hanna.»

Tutti si voltano a guardarmi, e io sbuffo. «Oh, no. Ragazzi, basta, per favore!»

«Lei ha un debole per te, amico» rispondono in coro, con voci cariche di risatine.

«Sì, certo...» scuoto la testa. «Mi ha fatto un pompino l’altra volta, ma è finita lì.»

«Attenta, si attacca come una cozza» dice Zac, voltandosi verso di me dal sedile del passeggero. «Non darle il tuo numero, fidati.»

Eddy ride, dandomi una pacca sulla spalla. «Tutti ci siamo passati prima di te, Ben.»

Il resto del viaggio è fatto di battute stupide e commenti volgari. Non riesco a liberarmi della sensazione di essere fuori posto. Sono qui, con loro, ma è come se non appartenessi più a questo mondo.

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