5. Scintille di potere
La sera scende su Seoul come un velo scuro e affascinante. Il panorama che si estende davanti a me è un intreccio di luci scintillanti e ombre profonde. Ogni stella nel cielo sembra raccontare una storia silenziosa, un segreto nascosto nel cuore della notte. Da questa stanza, in alto, vedo tutto: i grattacieli che si stagliano contro il cielo, le luci tremolanti delle strade lontane, e il respiro della città che non si ferma mai.
Il vento fresco entra dalla finestra socchiusa, portando con sé l'odore intenso del giardino. È un profumo che mi avvolge, fatto di fiori misteriosi e terra bagnata, che mi fa pensare a quanto questa città, così lontana dalla mia, mi sia ormai diventata familiare in pochi giorni. La fragranza mi entra nei polmoni, penetrando come una promessa, un invito a scoprire ogni angolo di questo mondo. Solo per farlo mio.
Mi appoggio alla finestra, le mani fredde contro il vetro, osservando le luci lontane. Ogni pensiero, ogni emozione, si mescola nell'oscurità di questo momento. Ma c'è qualcosa nell'aria stasera, qualcosa che non posso ignorare. C'è tensione, una sottile vibrazione che mi fa sentire viva, pronta. E so che la serata non sarà come tutte le altre.
Il mio cuore accelera, ma non è la paura. È l'attesa di qualcosa che sta per accadere. La consapevolezza. E mentre osservo la notte di Seoul, non posso fare a meno di chiedermi cosa mi aspetta. Come reagirà il signore oscuro che sta cercando di dominarmi.
La limousine mi attende come un predatore in agguato, lucida e nera, parcheggiata davanti alla scalinata della villa come un invito al sacrificio.
Inspiro profondamente. Sono pronta.
Indosso un abito provocatorio, scelto con cura maniacale solo per infastidirlo, per contraddire il suo ennesimo ordine. Semplicemente nero, sì, ma tutt'altro che sobrio: spacchi profondi, tessuto trasparente in punti strategici, un corpetto che sfida il pudore e la gerarchia.
Mi accomodo sui sedili in pelle con nonchalance, le gambe elegantemente accavallate, il mento sollevato come se fossi regina del mio destino.
La portiera si apre dopo pochi minuti.
Quando Riven sale in limousine, la sua presenza è simile a quella di una tempesta che si annuncia, silenziosa ma potente. Il suo abito scuro, impeccabilmente tagliato, si adatta al suo corpo in modo dannatamente perfetto, esaltando ogni linea, ogni muscolo. Sembra uscito da un altro mondo, eppure il suo sguardo—freddo, impenetrabile—ti paralizza come il gelo. C'è qualcosa di diabolico nel modo in cui si muove, una calma minacciosa che lascia intendere il suo potere assoluto. Gli occhi, due pozzi profondi di intenzione, sembrano scrutare ogni angolo, ogni respiro, come se non ci fosse nulla che possa sfuggirgli.
Nonostante l'aura glaciale, c'è qualcosa di irresistibile in lui, una carica magnetica che ti attrae, che ti tenta come una fiamma tenta le falene. La sua bellezza è avvolta in una sentenza di pericolo, una promessa di sofferenza e piacere, come un diavolo che gioca con il destino delle sue vittime. La freddezza che emana è quella di un demonio, ma anche la sua stessa natura malvagia diventa irresistibile, un gioco che non puoi non voler giocare, pur sapendo di essere condannato. Riven è il diavolo in persona, eppure, per qualche motivo, anche se ti distruggerà, non riesci a distogliere lo sguardo e infatti mi ritrovo a fissarlo quasi incantata.
Poi, il suo sguardo si posa finalmente su di me ed ecco che reagisce.
Si blocca un istante.
Lo vedo. La tensione gli increspa appena la mascella, gli occhi scivolano sul mio corpo come fiamme di disappunto.
Chiude la portiera con un tonfo lento.
«Hai intenzione di passare per una sgualdrina?»
La sua voce è raschiante. Fredda.
«Perché, non ti piace l'idea di avere accanto una donna di facili costumi? Pensavo si addicesse perfettamente al tuo stile.»
Il silenzio dopo le mie parole è fitto come nebbia. Un sospiro, uno sbuffo e la sua disapprovazione prende vita.
Poi, lui sposta il lembo della giacca.
Lento. Calcolato.
Il manico della pistola brilla appena, sufficiente a parlare al posto suo.
«Vai a cambiarti. Subito.»
Resto immobile. Braccia conserte, volto indispettito.
«No. Non vedo perché dovrei.»
I nostri sguardi si incatenano. Il suo si fa scuro. Furente.
Si sporge appena in avanti, e so che sta per fare qualcosa.
Ma sono più veloce.
Con un movimento secco, afferro la sua pistola dalla fondina. La mia mano è ferma, il braccio teso, il cuore in una scarica elettrica controllata.
La punta dell'arma si posa contro la sua tempia.
Il tempo si ferma.
Ma solo per un battito.
In un sussurro d'acciaio, il suo braccio si muove. Sfila un piccolo coltello, invisibile fino a un istante fa, e lo preme con precisione millimetrica contro la mia gola.
Ora siamo lì, nell'intimo equilibrio di chi potrebbe distruggersi in un respiro.
Occhi negli occhi. Pelle contro lama. Metallo su carne.
«Uccidimi ora, se ci riesci,» mormora.
«Vediamo chi dei due la spunterà.»
Sorrido. Un sorriso lento, feroce.
«Sai quanto sarebbe facile per me. Basterebbe un movimento. Non faresti nemmeno in tempo a chiedere aiuto ai tuoi scagnozzi.»
«Non ne ho bisogno.»
La sua voce è un sibilo.
«Non è la morte a spaventarmi.»
Poi aggiunge, con quella sua crudele dolcezza che taglia più di mille coltelli: «Ma sappi che non appena sapranno che mi hai ucciso... tuo padre farà la stessa fine. In silenzio. Senza avvertimenti.»
Il respiro mi si blocca in gola per un istante.
Non per paura. Per rabbia.
Inspiro. Espiro.
I nostri polsi tremano appena, il sudore tiepido si mescola all'adrenalina.
«Avete stretto un patto. Dovresti mantenere la parola e lasciarlo fuori da tutto questo. Adesso ci siamo solo io e te.»
«Non ti ho ancora sposata.»
Una semplice frase. Un veleno lento. Un promemoria che sono sua merce, non ancora marchiata a fuoco.
Abbasso lo sguardo.
Non per sottomissione, ma per strategia.
Con lentezza, gli restituisco la pistola.
Il suo coltello si ritrae un secondo dopo.
«Vado a cambiarmi. Ma non lo faccio per te.»
Riven mi osserva, quasi divertito.
«Sbrigati. Non mi piace arrivare tardi.»
La sua voce è di nuovo composta, ma io vedo le fessure. Le crepe.
Gli ho graffiato l'orgoglio.
E questo, per me, è già una vittoria.
«Ipocrita,» mormoro a denti stretti, assicurandomi che mi senta.
Rientro nella mia stanza accompagnata da una cameriera silenziosa. L'abito che mi attende da tutto il giorno è lì, adagiato su un supporto imbottito come un trofeo da esporre. Raso avorio, scollo profondo, spacco laterale vertiginoso. È elegante, sofisticato... eppure parla di prigionia. Di un ruolo che non ho scelto.
Mi vesto senza fretta, strattonando ogni bottone come se fosse una sfida.
Quando torno nel giardino, la limousine è ancora lì. E lui, attende dentro, spazientito.
Salgo senza dire nulla. Stavolta, sono io a mantenere il silenzio.
Riven non mi guarda. O forse sì, ma non me ne accorgo subito.
Il silenzio tra noi è spesso, quasi sensuale nella sua tensione.
Poi, senza preavviso, mi afferra il polso. Forte, deciso.
Un gesto che non ammette esitazioni.
«Che diavolo fai?» sibilo.
Lui non risponde. Dal taschino interno estrae una scatoletta nera di velluto.
La apre.
Dentro, un anello.
Sottile, d'oro bianco, con un diamante al centro, taglio freddo, come lui.
Prima che possa ribellarmi, me lo infila al dito.
«Cos'è questo?» chiedo, la voce bassa, tesa.
«Un marchio.»
La risposta arriva con una calma irritante.
«Un simbolo. Per gli altri. Per te.»
«Non sono un animale da esposizione.»
«No. Sei molto peggio.»
Il suo sguardo si sofferma sul mio viso, poi scivola alle mie labbra.
«E ora sei mia.»
«Ancora non ci siamo sposati. Ricordi?»
«Dettagli.»
Abbasso lo sguardo sull'anello. È leggero, ma mi pesa addosso come ferro fuso.
Vorrei toglierlo.
Vorrei lanciarlo fuori dal finestrino.
Ma non lo faccio.
Perché in questo gioco, ogni mossa è calcolata.
Il suo dito sfiora la mia mano con calma.
Un gesto lento, quasi tenero. Ma so che è veleno anche quello.
«Ti comporti come se fossi già la padrona del mio impero. Ma ricorda, Anya... qui sei solo un'ospite.»
«E tu comportati come se sapessi con chi hai a che fare.»
Sorrido appena, senza calore.
«Non dimenticare che anche i re cadono.»
Il suo sguardo brucia, ma non dice nulla.
Il silenzio, ancora una volta, è la sua arma più affilata.
E mentre la limousine scivola tra le luci di Seoul, io stringo il pugno sull'anello.
Non per affetto. Ma per ricordare a me stessa che in questo gioco tossico, ogni concessione è solo una mossa strategica.
