
Riepilogo
"Mi hanno venduta al diavolo. E adesso il diavolo mi guarda come se fossi sua." Anya Orlova è cresciuta tra il sangue e il ghiaccio, figlia prediletta di un potente boss della mafia russa. Letale, calcolatrice, e con l'anima graffiata dalla vendetta, è un'arma perfetta. Ma quando suo padre accumula debiti con il più spietato clan di Seul, decide di saldare il conto con l'unica moneta rimasta: sua figlia. Promessa in matrimonio a Riven Lee, il freddo e impenetrabile boss coreano che governa il crimine con pugno di ferro e sguardo d'acciaio, Anya accetta... ma ha un piano: sedurlo, ingannarlo, ucciderlo. E poi prendersi tutto. Ma Riven non è un uomo facile da manipolare. È intelligente, glaciale, e conosce bene il pericolo che si cela dietro quegli occhi color tormento. La loro comunicazione è un intreccio di coreano e russo, fatto di parole taglienti, silenzi carichi e sguardi che bruciano più di una pistola carica. Lei lo vuole morto. Lui la vuole spezzare. Ma più si sfidano, più l'attrazione diventa veleno nelle vene. In un mondo fatto di tradimenti, alleanze pericolose e giochi di potere, l'amore è un lusso. E il desiderio... una condanna. Chi dominerà il gioco? Chi tradirà per primo? E quando il cuore inizierà a battere davvero, sarà già troppo tardi.
Prologo
Dicono che il cuore sappia riconoscere il pericolo prima della mente. Ma il mio ha smesso di sentire da tempo. Eppure stanotte... batte forte. Troppo forte. Come se sapesse che sto entrando in bocca al lupo. O peggio: tra le braccia del diavolo.
La notte a Seoul ha un odore diverso. È più tagliente, come vetro rotto sotto la pelle. Raccontano che ogni città abbia un cuore pulsante, un ritmo che si sente nel petto. Seoul, invece, respira come un predatore: lenta, silenziosa, famelica. E io sono appena atterrata nella sua bocca.
Appoggio la fronte contro il finestrino dell’auto che mi accompagna, lasciando che il vetro freddo mi riporti alla realtà. Il cielo è una colata di pece e pioggia, ma sotto, le luci della città sembrano gioielli rubati, accesi troppo in fretta. Ogni cosa è troppo veloce, troppo affilata. Come lui. Come Riven Lee.
Non l’ho mai visto. Ma conosco il suo nome come una maledizione.
Il mio futuro marito. Il diavolo.
Inspiro piano. Lo stomaco mi si contorce per la rabbia che non posso permettermi di mostrare. Mio padre dice che è per proteggermi. Per salvare la famiglia. A detta sua sarebbe un'opportunità. Ma io so che è per salvarsi da solo. L’uomo che mi ha insegnato a sparare a undici anni ora mi manda come una specie di dono al suo nemico. E io... io sorrido.
Perché lui non sa cosa sto pianificando.
«Signorina Orlova,» mormora l’autista in un coreano impeccabile, il primo suono umano da quando sono salita in macchina. «Stiamo arrivando.»
Annuisco senza guardarlo. Conosco abbastanza la lingua per capire, ma non abbastanza per sembrare innocua. Meglio così. In questa città, ogni parola è un’arma, e ogni silenzio, un’imboscata.
La limousine avanza lungo un viale privato, costeggiato da alberi troppo ordinati per essere naturali. Tutto qui è costruito per impressionare. Ma io non mi impressiono. Ho visto uomini dissanguarsi nel mio salotto. Ho stretto le mani a chi ha ordinato esecuzioni con un sorriso sulle labbra. Eppure, c'è qualcosa in questa atmosfera che mi fa trattenere il respiro.
La villa appare come una ferita aperta nella collina, incastonata tra alberi neri e un cancello d’acciaio che sembra più una trappola che una protezione. Appena entriamo, sento l’aria cambiare. Più pesante. Più densa. Il tipo di aria che si respira nei posti dove si muore facilmente.
Un uomo in completo scuro mi apre la portiera. Non sorride. Non dice nulla. Come un’ombra addestrata. Mi aspettano. Ovviamente.
I miei stivali colpiscono l’asfalto bagnato con un suono secco. Lo seguo lungo un vialetto che odora di terra, foglie spezzate e pioggia, fino all’ingresso. Non una parola. Solo passi. Solo silenzio. Le luci esterne illuminano appena l’imponente struttura in vetro e cemento. È moderna, elegante... e priva di qualsiasi anima. Come l’uomo che la comanda.
Varco la soglia e vengo inghiottita da un lusso freddo e studiato. Nessuna foto. Nessun oggetto personale. Solo linee perfette, marmo lucido, acciaio e vetro. Tutto ordinato. Tutto sotto controllo.
Tutto tranne me.
«La sua stanza è al piano superiore,» dice una voce femminile alle mie spalle. Non mi volto subito. Il tono è rispettoso, un inchino accenna una riverenza, ma c’è qualcosa nel modo in cui la sua voce trema leggermente che mi fa alzare la guardia mentre mi supera con due passi.
Quando la guardo, noto il piccolo tatuaggio dietro l’orecchio: un loto nero. Le donne che servono Riven lo portano come segno di appartenenza. O di prigionia.
«Grazie,» rispondo in russo. Il suo sguardo vacilla un istante. Bene. Lasciamola confusa.
Salgo le scale con passo lento. Ogni gradino è una condanna che ho accettato con consapevolezza. Ogni respiro mi ricorda che sto entrando nella tana del lupo. Ma non sono una preda. Sono veleno puro, letale.
La stanza è enorme. Vetro ovunque. Le tende sono già aperte, lasciando entrare il buio. Mi avvicino alla vetrata e appoggio la mano sul vetro. Il panorama è mozzafiato. La città sotto di me sembra un mosaico vivo. Ma non è questo a trattenermi. È una figura.
Laggiù, nel giardino, tra gli alberi, c’è un’ombra che si muove.
Non dovrei vederla. È troppo lontano, troppo nascosta. Eppure... qualcosa in quella presenza mi stringe il petto.
Alto. Immobile. Come se mi stesse osservando. Il cuore mi martella nel petto senza ragione. Non può essere lui. Non ancora. Eppure il mio istinto urla il contrario.
Una folata di vento agita le fronde e la figura sparisce.
Mi stacco dal vetro, il fiato corto. No. Troppo presto per cedere alle suggestioni. Troppo presto per lasciarmi distrarre. Riven non è un uomo comune. Non sarà una guerra semplice.
Mi siedo sul letto e osservo il pavimento, le mani strette tra loro. L’odore della stanza è neutro, asettico. Ma tra le pareti silenziose riesco a percepire qualcos’altro. Una vibrazione. Come se qualcuno stesse ascoltando.
Mi alzo di scatto e inizio a muovermi, a cercare. Trovo una microcamera nascosta nella cornice dell’abat-jour. Sorrido.
Perfetto. Sono stati prevedibili.
Mi ci avvicino, la sfioro con le dita, e poi parlo in russo, lenta, scandita:
«Guardami bene, Riven Lee. Non sono una bambola da esposizione. Non sono veramente tua. E se pensi di potermi dominare, ti conviene prepararti a essere spezzato.»
Mi allontano, poi aggiungo, con un sorriso che so essere velenoso:
«Buona notte.»
Spengo la luce.
Mi sdraio, ma non chiudo gli occhi. Perché so che anche se lui non era realmente in giardino, mi ha già visto. Mi sta studiando. Come si fa con le prede rare. Ma io non ho intenzione di fuggire.
Sono qui per giocare. E vincere.
Solo che... una parte di me, quella che avevo sepolto anni fa, inizia a chiedersi qualcosa che non dovrebbe nemmeno sfiorarmi.
E se invece fosse lui a vincere?
No.
Lo ucciderò prima che accada.
Non c’è spazio per debolezze. Non c’è spazio per tentazioni. Non c’è spazio per niente.
Solo guerra.
Mi giro nel letto, persa tra veglia e sonno. E poi la vedo.
Sul comodino.
Una rosa.
Una singola rosa rossa, perfetta, con i petali ancora lucidi di pioggia. Non c’era prima. Ne sono certa. Ogni fibra del mio corpo si irrigidisce.
Il gambo è lungo, avvolto in un nastro nero. Nessun biglietto. Nessuna spiegazione. Solo quel fiore. Vivido. Pulsante. Come se fosse ancora vivo.
Lo prendo con cautela, il cuore che batte troppo forte. La sento tra le dita. È calda. Come se fosse stata appena lasciata lì. Il profumo è carnale, oscuro, quasi inebriante. Sa di promesse non fatte e peccati sussurrati.
Qualcuno è entrato nella mia stanza. Stanotte. In silenzio. Invisibile.
E io non mi sono accorta di nulla.
Sarà stato Riven?
O qualcuno che vuole farmi credere che lo sia?
Sorrido nel buio.
Il gioco è appena cominciato.
E io non ho mai perso in vita mia e non ho intenzione di iniziare proprio ora...
