4. Nessuna scelta
Il mondo sembra rallentare intorno a me, i pensieri si fanno fitti, ma restano immaginari, sospesi nell'aria. Non cerco nulla, eppure non riesco a distogliere lo sguardo da quel vuoto, come se dentro di me stesse cercando un barlume che non trovo.
Non ho chiuso occhio.
Il corpo è rimasto immobile sotto le lenzuola di seta, ma la mente ha continuato a rimestare parole, sguardi e respiri. Il fantasma di Riven è rimasto nella stanza, impregnato nelle pareti, tra le ombre dei pensieri.
Aspetto l’alba come si attende una tregua. Ma il sole, quando arriva, è solo un pallido spettatore. Non porta salvezza. Solo un altro giorno sospeso sul filo della volontà.
Una bussata sommessa interrompe il silenzio e cattura il mio sguardo.
La porta si apre appena, lasciando entrare una figura discreta: una ragazza in uniforme color avorio, occhi bassi e voce spenta.
«La colazione è servita, signorina.»
Mi alzo senza dire nulla. Cammino lungo corridoi decorati con arte calcolata, dove ogni specchio, ogni curva d’arredo sembra progettata per ricordarti che qui non comandi tu. Qui esisti, e basta.
La sala da pranzo è vasta e glaciale. Un tavolo lungo come una pista d’atterraggio divide l’ambiente.
Lui è già lì.
Riven.
In completo grigio scuro, impeccabile. Immobile. Lo circondano due uomini che parlano a bassa voce, sfogliando cartelle riservate. Nessuno si gira a guardarmi.
Un’umiliazione voluta.
Un messaggio muto.
Una cameriera mi guida al mio posto. Il servizio è rapido, silenzioso, perfetto.
Davanti a me appare una ciotola fumante di juk, zuppa di riso, accompagnata da piccoli piatti: kimchi speziato, alghe croccanti, tofu al sesamo, uova marinate alla soia, fettine sottili di cetriolo in aceto dolce.
Infine, una tazza bassa colma di caffè nero. Forte, bruciante, lontano dal gusto morbido e rotondo delle miscele russe.
Mi manca il mio pane nero tostato, la marmellata densa di lamponi, il burro salato che si scioglie lento sul coltello.
Ma non vacillo nemmeno un po'. Non mi mostreró nostalgica.
Mangio in silenzio, mentre ascolto.
Le loro voci sono ovattate ma affilate.
Parlano di spedizioni coperte, territori instabili, accordi sotto banco, forniture che non devono mai essere rintracciate.
Uno dei due ride quando Riven dice che “quelli che escono non dovranno tornare”.
Il gelo mi attraversa la spina dorsale, ma continuo a sorseggiare il caffè come se nulla fosse.
Poi la sua voce, decisa come una lama posata sul tavolo.
«È qui che interverrai tu.»
Sollevo gli occhi, con lentezza calcolata.
«Scusami?»
Il mio tono è dolce, quasi ingenuo.
Riven non distoglie lo sguardo dai fascicoli. Ma sa che ho ascoltato tutto.
Non mi darà il lusso di farlo notare.
«Un incarico, Anya. Dici di avere talento. È tempo di usarlo.»
Sorrido. Un sorriso sottile, sfiorato.
«In Corea del Nord, vero?»
Le sue dita si fermano.
«Curioso… E perché non ci vai tu?»
Uno dei suoi trattiene il fiato.
Provoco. E lo faccio con eleganza.
«Ho altri affari da curare,» risponde lui, senza alzare lo sguardo.
«Oppure…»
Mi appoggio allo schienale, accavallo le gambe con grazia.
«…sei consapevole che lì il tuo nome non vale nulla. Che oltre quel confine, Riven il potente non è altro che un invasore qualunque. Un uomo scomodo. Semplice carne straniera.»
Silenzio.
Lui mi guarda. Finalmente.
Con quegli occhi obliqui e immobili, il colore dell’inverno.
«Se vuoi che tuo padre viva abbastanza, andrai dove ti mando. Senza discutere.»
La frase cade sul tavolo come una sentenza.
Mi ferisce, ma non mi piega.
«E se non volessi?» sussurro.
«Allora vestiti a lutto.»
Sorrido. Stavolta davvero.
«Vuoi già farmi impersonare la parte della vedova? Non siamo ancora sposati, tesoro.»
Per un attimo—solo uno—lo vedo fremere.
La mascella si irrigidisce, le dita battono il legno con ritmo accelerato.
«Non mettermi alla prova, Anya.»
Ah, eccolo.
Il primo cedimento.
Mi soddisfa.
Perché, anche in questa partita oscura, il gioco è di nuovo pari.
Poi, con una voce ruvida, chiude la conversazione e cambia argomento.
«Stasera ci sarà un evento. Alto livello. Politici, finanza, accordi. Tu verrai. E sarai presentata come la futura moglie del boss. Tienilo a mente.»
Non c’è spazio per discussioni. Nessuna possibilità di scelta. Le sue parole sono una sentenza, una verità che non ammette repliche. Ma non mi arrendo così facilmente.
«Non credo di poterci essere,» rispondo, il sorriso che mi sfiora le labbra come una carezza di ghiaccio. «La mia agenda è già fitta di impegni.» Il sarcasmo che scivola tra le parole è tagliente, più velenoso di quanto avessi previsto. Una sfida aperta, un affronto che mi scivola via con nonchalance.
Gli uomini di Riven, immobili, si scambiano un’occhiata rapida, colpiti dalla mia audacia. C’è un’imbarazzante esitazione che aleggia nell’aria, un rispetto silenzioso che, però, non si traduce in paura. Per loro, il pensiero di contraddire Riven è impensabile. Eppure, in un attimo, il loro respiro si fa più corto, una sottile tensione li avvolge, come se stessi sfidando qualcosa che va oltre la semplice sfrontatezza.
Riven non si scompone. La sua calma è glaciale, più potente di qualsiasi esplosione. Il suo sguardo rimane fisso su di me, senza un battito di ciglia, senza un segno di emozione. Poi, lentamente, la sua bocca si incurva in un sorriso che non è affatto rassicurante, ma un avvertimento che fa vibrare l’aria tra di noi. Un sorriso che promette tutto, ma non la dolcezza.
Senza fretta, si avvicina. Ogni suo passo è misurato, deciso, e la sua presenza cresce a ogni centimetro che ci separa. Mi sento come se stessi cercando di sfuggire alla morsa di un predatore, ma non posso muovermi. Rimango impalata, consapevole che ogni fibra del mio corpo è pronta a esplodere in reazione, ma che la mia mente resta l’unico campo dove posso ancora giocare.
«Non hai scelta,» sussurra, la voce bassa, vellutata, ma con una potenza che mi fa gelare il sangue. Ogni parola è come un colpo ben assestato, un colpo che mi lascia senza fiato. « E ti consiglio di non scherzare con me, o la tua agenda finirà con l’essere... decisamente più vuota. È il mio ultimo avvertimento.»
C’è un istante di gelo. La mia lingua è come paralizzata, la voce sepolta sotto un’ondata di emozioni che cerco di tenere sotto controllo. Nonostante tutto, non mi piego. L’orgoglio mi tiene in piedi, forzandomi a mantenere la calma mentre l’aria tra di noi sembra incenerirsi. So che lui ha il potere di demolirmi in un istante, ma per ora, sono ancora qui.
Eppure, in quel momento, la consapevolezza che lui abbia il controllo totale è come una scarica elettrica che attraversa il mio corpo. La minaccia è chiara, concreta. E non c’è dubbio che lui sia pronto a trasformarla in realtà.
Mi alzo lentamente, il corpo che si distende come una fiamma che danza nell’oscurità. Faccio un passo indietro, il mio movimento è un gesto teatrale, studiato. Mi inclino appena, come se fossi una principessa in attesa di un tributo, ma il mio sguardo è tutt’altro che riverente.
«Agli ordini, vostra grazia,» dico, lasciando che le parole scivolino dalle labbra con un sarcasmo tanto sottile quanto letale. Ogni sillaba è accuratamente voluta, un ricordo del mio disprezzo velato da una maschera di civiltà. La sua minaccia non mi spaventa, anzi, mi alimenta. Il sorriso che mi si disegna sul viso non è altro che un invito a giocare con lui.
Con la testa alta, senza nemmeno un cenno di esitazione, mi allontano. I miei passi colpiscono il pavimento con un suono che riecheggia come un’eco nel silenzio. La mia postura è perfetta, il passo deciso. Ma quando cammino accanto agli uomini di Riven, non posso fare a meno di fermarmi, anche solo per un secondo. Mi giro verso di loro, un sorriso malizioso che accende il mio volto.
«Tranquilli, ragazzi,» dico con voce bassa, ma carica di significato. «Ben presto il vostro padrone vi darà un biscottino come ricompensa.» Le parole, però, escono in russo, con il mio accento tagliente e familiare, come un veleno sottile che li colpisce senza che possano capire nulla. Un sorriso si allarga, divertito. Li osservo, vedo la loro confusione. Non hanno la minima idea di cosa stia dicendo, ma posso vedere nei loro occhi che qualcosa, anche se non lo comprendono, li turba.
Poi, senza nemmeno aspettare una risposta, mi giro di nuovo e vado verso la porta. Ma proprio quando penso di averla vinta, la sua voce, lenta e impossibile da ignorare, mi ferma.
«Loro non avranno un biscottino, Anya.» La voce di Riven è più bassa, più profonda. È fredda come il ghiaccio, ma il suo accento russo è impeccabile. Non una sbavatura, non un errore. Ogni parola cade con precisione chirurgica, tagliente. «Ma tu, invece, avrai qualcosa di molto più interessante. Qualcosa che ti farà chiedere, spesso e volentieri, se ne valga davvero la pena, continuare a sfidarmi.»
Mi blocco, il battito del mio cuore che accelera, lo stomaco che si stringe come se avessi appena ingoiato un pezzo di ghiaccio. Non riesco a credere alle sue parole. Mi giro lentamente, lo guardo come se fosse un miraggio, come se il mio stesso corpo non riuscisse a credere alla scena che si sta svolgendo davanti ai miei occhi.
Riven sorride, ma è un sorriso privo di calore. Un sorriso che non promette nulla di buono. Le sue parole non sono solo una minaccia. Sono un avvertimento, una promessa. Una promessa di qualcosa che non posso neanche immaginare, ma che intuisco essere infinitamente più pericoloso di quanto abbia mai affrontato prima.
Un brivido mi corre lungo la schiena. Non so se sono più furiosa o incredula, ma non posso fare a meno di sentire il nodo che mi si stringe nello stomaco. Questo gioco, questa guerra psicologica, non è più nelle mie mani. Ora capisco che lui è davvero il padrone di tutto.
Mi fermo, il respiro che mi trema. Ma non posso fare altro che sorridere, anche se so che ora, più che mai, questo gioco non è più solo tra di noi. È una partita che potrebbe uccidere.
