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2. Nel pugno del nemico

Il bagno caldo mi avvolge come una menzogna gentile.

Il vapore accarezza la pelle, sfiorandomi come dita invisibili. L’odore intenso di tè nero si mescola agli oli essenziali di lavanda e sandalo, saturando l’aria. Tutto è silenzio, morbido, irreale.

Eppure non trovo pace.

Non quando l’eco della sua voce mi scivola ancora tra le ossa.

Non scappare. Sei già mia.

Una frase, una condanna. Oppure una promessa?

Mi immergo fino al mento, chiudo gli occhi.

Nel buio dietro le palpebre, vedo il suo volto. È scolpito nella mia mente come una maledizione tramandata. Lineamenti perfetti, severi, la bocca socchiusa in un’espressione perennemente contrariata, i capelli corvini scompigliati sulla fronte come se anche il vento si fosse arreso a domarlo.

Ma sono i suoi occhi che non riesco a scrollarmi di dosso: neri, profondi, inclinati con quella piega regale che ricorda le maschere cerimoniali orientali. Due fenditure taglienti che non mostrano nulla, ma fanno intuire tutto. Sembrano specchi neri che assorbono ogni luce… e ogni verità.

Che cosa vuole davvero da me?

Una moglie di facciata? Una merce di scambio? O un’arma viva da puntare contro mio padre?

E se fosse tutto questo insieme?

E se fossi io a diventare il pericolo?

Temo di averlo sottovalutato.

Quando esco dal bagno, mi asciugo lentamente, come se ogni gesto potesse ancorarmi alla realtà. Indosso abiti semplici: pantaloni scuri, un maglioncino grigio che mi accarezza la pelle come un sussurro. I capelli ancora umidi sciolti sulle spalle.

Mi fermo davanti allo specchio.

I miei occhi, di un grigio metallico, sembrano brillare sotto la luce soffusa. C’è qualcosa di duro in quello sguardo. Le labbra piene, il naso dritto, gli zigomi alti, la pelle chiara — quasi diafana.

E i capelli… rossi, di un rosso cupo e caldo, come vino versato sul marmo. Un’eredità rara della mia famiglia materna. Ogni ciocca sembra ardere, una fiamma viva.

Non sembro una vittima.

E non lo sarò.

Scendo le scale. La villa è silenziosa, perfetta, inquietante. Ogni superficie brilla. Ogni ombra sembra osservare. Lo stile è minimale, eccessivamente pulito, con tocchi di cultura orientale — pannelli scorrevoli, bonsai minuscoli, calligrafie incorniciate. Una bellezza calcolata. Un luogo in cui nulla è lasciato al caso.

Proprio come lui.

Entro nella sala da pranzo. C’è un solo posto apparecchiato.

Il mio.

Tovaglia bianca, posate d’argento, una ciotola fumante di ramen rivisitato in chiave fusion.

Un pranzo preparato per me. O per quello che rappresento?

Mi siedo, senza toccare il cibo.

Poi la sua voce — bassa, profonda, morbida come caramello caldo, ma tagliente come un filo di rasoio — rompe il silenzio.

«Ti piace mangiare da sola?»

Non arriva con prepotenza. Ma con intenzione. È come una spada che non ha bisogno di colpire per farsi temere.

Mi volto.

Riven è lì. Appoggiato allo stipite, come se la stanza gli appartenesse da sempre. Camicia nera, pantaloni sartoriali. Mani in tasca.

L’espressione imperturbabile.

Il corpo rilassato, ma ogni fibra vibra di un controllo feroce.

Cammina verso di me. Ogni passo è lento, misurato, come se stesse scrivendo un messaggio segreto col movimento. Si siede all’altro capo del tavolo, ma la sua presenza riempie lo spazio tra noi come una morsa.

«Meglio sola che con chi non sa distinguere un invito da un’imposizione» dico, sollevando appena un sopracciglio.

Lui inclina appena la testa.

Un sorrisetto — più un’incrinatura che un’emozione reale — gli sfiora le labbra.

«L’invito era implicito. Questa è casa mia. Non ho bisogno di bussare, tanto meno di chiedere.»

La sua voce ha un calore sinistro, come brace sotto la cenere. Calma, elegante, eppure satura di una pericolosa promessa.

«E la mia stanza? Anche quella ti appartiene? Anche il mio spazio personale?»

La rabbia è come un fuoco lento, ma non lo mostro. La voce mi esce precisa, controllata.

Riven sorseggia un bicchiere d’acqua come se avessi fatto la domanda più irrilevante del mondo.

«Te l’ho già detto.» Mi guarda. «Tutto ciò che vedi mi appartiene. Anche tu.»

Dannazione.

C’è un brivido che mi percorre la schiena, ma non è paura. È altro.

È la consapevolezza di essere entrata in un gioco che non conosco… e di averne già spezzato le regole.

Mi alzo lentamente.

«Allora, buona fortuna. Perché sono l’unica cosa che non riuscirai possedere.»

Cammino verso l’uscita. Il pavimento sotto i piedi nudi è freddo come marmo sepolcrale.

Poi la sua voce. Ancora.

Un sussurro. Ma affonda come una lama.

«Sei tenace. Ma anche le fiamme si spengono, quando restano troppo a lungo sotto il ghiaccio.»

Mi fermo.

Poi sorrido, anche se non può vedermi.

Io sono ghiaccio e fuoco insieme.

E lui ancora non sa quanto potrei bruciarlo.

Il corridoio fuori dalla sala da pranzo è silenzioso come una cripta. Mi muovo piano, in punta di piedi, come se stessi violando una legge invisibile. Nessuno mi ha detto di non farlo. Eppure tutto in questa casa sussurra: non andare oltre.

E io, ovviamente, vado oltre.

Svolto a sinistra, poi a destra. Scale secondarie, porte chiuse, specchi antichi, tappeti persiani che attutiscono i miei passi. Le pareti trasudano eleganza e prigionia allo stesso tempo. È un labirinto disegnato da un uomo che non lascia nulla al caso.

Il mio riflesso in una delle finestre annerite mi osserva. Capelli rossi sciolti, la pelle più chiara del solito, gli occhi un po’ più lucidi di quanto vorrei.

Non sei qui per farti spezzare, mi dico.

Trovo un’uscita laterale: una porta a vetri che si apre con facilità. Il giardino mi accoglie con il profumo tagliente delle rose rosse. Le aiuole sono curate in modo maniacale. Ogni pianta, ogni pietra, ogni sentiero è disposto secondo una logica precisa, come in un giardino zen travestito da serra romantica.

Il cielo si è fatto più cupo, anche se il sole non è ancora del tutto tramontato.

Sembra che anche il tempo qui risponda a lui.

Cammino tra i cespugli, sfiorando spine e petali. L’aria profuma di qualcosa che sa di memoria, di malinconia, eppure anche di pericolo. Mi tolgo le scarpe. Camminare a piedi nudi sulla pietra umida è un atto di sfida. E di libertà.

Se questo è il suo regno, allora voglio lasciare le impronte.

Mi fermo davanti a una fontana: al centro, una statua senza volto versa acqua da un’anfora spezzata.

Un’immagine perfetta: bellezza, silenzio, mutilazione.

Questa casa è la mia gabbia dorata. Ma anche il mio campo di battaglia.

Poi sento il rumore.

Non passi, non voci. Solo un fruscio alle mie spalle. Mi volto.

Un cameriere in divisa scura è comparso come un’ombra tra le colonne. Mi porge qualcosa senza una parola: un biglietto piegato con un sigillo in ceralacca nera. Lo riconosco subito.

Riven.

Lo apro lentamente. La calligrafia è netta, inclinata. Ogni lettera un colpo d’inchiostro deciso.

“Stasera. Terrazza Est. Ore venti. Indossa qualcosa di adatto alla notte.”

Nessuna firma. Non ce n’è bisogno.

Lo guardo, il biglietto. Poi il cameriere. Ma lui si è già dissolto, inghiottito di nuovo dalla casa come se non fosse mai esistito.

Mi stringo addosso il maglione. Fa freddo, troppo per maggio.

Ma non è solo l’aria. È la sensazione che lui stia già lì, sulla terrazza, anche ora.

Ad aspettarmi.

O a osservarmi.

Mi siedo un momento su una panchina, il biglietto tra le dita.

È un invito. O un ordine?

Lui non costringe, non urla, non mostra i pugni. È peggio: ti invita. Ti sfida a dire di no. E sai che se accetti, sei già perduta.

Ma se non accetti… allora hai perso.

Mi sento come un filo d’erba sotto la neve. Eppure… sotto, le radici resistono.

Cos’ha in mente? Perché mi chiama ora, dopo avermi detto che mi possiede?

Forse vuol mostrarmi ancora una volta che può farlo. Che io sono parte della sua sceneggiatura, di qualche suo subdolo piano.

Ma c’è qualcosa che non torna.

Qualcosa nei suoi occhi.

Come se neanche lui fosse più certo di dove finirà questo gioco.

Mi alzo.

Torno in camera e mi vesto lentamente. Scelgo un abito nero semplice, a maniche lunghe, con la schiena scoperta. Niente gioielli. Solo la mia pelle, il mio sguardo, la mia rabbia.

E la mia curiosità.

La terrazza est è deserta, sospesa in una luce che si spegne lenta.

Il cielo di maggio, increspato da nuvole di piombo, pare riflettere l’incertezza che mi porto addosso da quando ho varcato il cancello di questa villa. Fa freddo. Un freddo insolito, tagliente, che si insinua sotto la pelle come un presagio. Ma so che non è colpa del clima.

È lui. È la sua presenza invisibile, come una forza gravitazionale che deforma l’aria.

Avanzo tra i vasi in pietra e le colonne scolpite, attirata dalla debole luce dorata che filtra da un’unica lanterna accesa. Sul bordo della terrazza, a strapiombo sul giardino, c’è un uomo.

Lo riconosco dalla postura.

Spalle larghe, mani intrecciate dietro la schiena, profilo tagliato nel marmo dell’ombra. Immobile, come se fosse parte della villa stessa. Come se appartenesse a quel posto più del vento, più delle rose sottostanti.

Riven Lee.

Non si volta, ma so che mi ha sentita.

«Ti sei messa il vestito giusto per una prigioniera.»

Il suono della sua voce mi colpisce prima ancora di comprendere le parole. È profonda, avvolgente, una voce che si avvicina senza toccarti, ma ti lascia segni addosso. Ha un calore strano, come un fuoco spento da tempo che ancora emana brace.

«Mi hai convocata, non potevo presentarmi in pigiama.»

La mia risposta è tagliente, ma anche io sento il tremito sottile che nasconde. Non paura. Mai. È qualcosa di peggiore: è la sensazione di essere messa a nudo davanti a uno sconosciuto che legge le crepe prima ancora che si formino.

Lui si gira lentamente.

Il volto di Riven emerge dalla penombra come un dipinto dimenticato sotto la polvere. Lineamenti scolpiti, eleganza silente. Gli occhi — quelli occhi scuri, leggermente allungati e profondi, come inchiostro diluito nella porcellana — si posano su di me senza esitazione. C’è giudizio in quello sguardo. Ma anche qualcosa di più primordiale. Fame, forse. Controllo.

O qualcosa che non voglio nominare.

«Non mi piace essere disturbato. Ma non sopporto nemmeno chi ignora i miei messaggi.»

«Un biglietto infilato nella mano di un cameriere non è un messaggio. È una convocazione. Manca solo il timbro reale.»

«Oh, ma quello è inciso nel sangue. Non servono timbri.»

Riven cammina verso di me, con una lentezza che non è esitazione ma potere. Ogni passo sembra dosato per mostrare che lui ha tempo. Tempo e dominio.

La distanza tra noi si annulla. Ma lui non mi tocca. Non serve.

La sua sola vicinanza è sufficiente a farmi dimenticare il freddo. O forse è solo che il freddo ora proviene da dentro.

«Hai accettato questo matrimonio» mormora, la voce più bassa, come se volesse sussurrarmi una verità velenosa.

«Non avevo scelta.»

«Tutti hanno scelta. Alcuni, semplicemente, non sopravvivono abbastanza per vederne le conseguenze.»

Il suo sorriso è appena accennato. Non è un gesto umano. È una ferita che si apre sul volto, un taglio di ghiaccio.

«Mi hai portata qui per torturarmi con frasi criptiche o per darmi almeno una spiegazione?»

«Non devi sapere. Devi solo restare viva.»

Resto in silenzio. Un silenzio che si riempie di battiti e interrogativi.

Poi parlo. La voce mi esce bassa, ferma, ma dentro mi sento sull’orlo.

«Perché proprio me? Perché sposare la figlia di un uomo che odi?»

I suoi occhi brillano, ma non c’è luce in quel bagliore. Solo la promessa di qualcosa che non riuscirò a prevedere.

«La risposta la sai già.»

E lo dice come se l’avesse scolpita lui stesso nelle mie ossa. Come se la mia esistenza non fosse altro che una parte del suo disegno crudele.

Abbasso lo sguardo un secondo. Solo un secondo. Poi lo fisso di nuovo.

«Cosa credi? Che se mi spezzi, mio padre verrà a implorarti? Credi che possa soffrire per me?»

Riven non risponde subito. Ruota il viso verso il giardino, come se cercasse una metafora nei roseti bui.

Poi si volta verso di me.

«No. Ma ti userò comunque. Non come pedina. Come lama. Sarai tu ad annientarlo.»

Il silenzio ci cade addosso come neve scura.

Per un istante non siamo più due sconosciuti legati da un contratto. Siamo due armi affilate, due anime intrappolate in un gioco di guerra e seduzione.

«Ti stai illudendo» dico, un sussurro tra i denti. «Io non colpirò mai per conto tuo.»

Lui sorride. Lentamente.

«Ne riparliamo quando il tuo cuore inizierà a battere solo nel mio pugno.»

E in quel momento sento qualcosa, qualcosa che mi fa stringere le braccia intorno al corpo, non per il freddo ma per la vertigine.

Perché c’è un abisso tra noi —

e io sto scegliendo di guardarci dentro.

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