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1. L'incontro

La luce filtra dalle imposte semichiuse, tagliando la penombra della stanza con lame dorate. Un silenzio innaturale regna nell'aria, rotto solo dal battito del mio cuore che, inspiegabilmente, sembra più veloce del solito. Mi sveglio di colpo, gli occhi sgranati verso il soffitto decorato con rilievi dorati. Non riconosco questo soffitto. Né la stanza. Né il profumo pungente di rosa e legno bruciato che impregna le pareti.

La mia vita sta cambiando sul serio.

Mi tiro a sedere nel letto troppo grande per una sola persona. Le lenzuola, candide come la neve russa, scivolano via, lasciando scoperte le mie gambe. Ho addosso solo una sottile canotta di seta color perla. Fredda, leggera, fastidiosamente elegante.

Mi guardo attorno con attenzione: mobili minimalisti ma costosi, una finestra affacciata su un giardino che non ho mai visto prima alla luce del giorno, e poi, in fondo alla stanza, qualcosa attira il mio sguardo. Il mio cuore accelera.

Un abito da sposa.

È appeso lì. Come un’ombra bianca sospesa a mezz’aria. Non era qui la sera prima, ne sono certa. Ieri, questa stanza era solo un temporaneo rifugio. Un ostello dorato in cui dormire mentre mio padre si inchinava al nemico.

Ma adesso… quella visione mi ferisce come un coltello in pieno stomaco. È un abito orientale, elegante ma semplice, con ricami argentati e una lunga coda fluente. Ai piedi, un paio di scarpe rosse. Accanto, una rosa dello stesso colore, posata con precisione chirurgica sul comodino.

Rossa. Viva. Spietata. Proprio come quella della sera prima.

Mi alzo di scatto. I piedi nudi toccano il pavimento gelido. I pugni si chiudono, le unghie affondano nei palmi. Chi ha osato entrare qui? Chi ha osato imporsi così? Ancora una volta!

«Dannazione!» ringhio, afferrando la rosa e scaraventandola a terra.

Corro verso la porta, la spalanco con uno strattone e mi affaccio nel corridoio. Silenzio. I corridoi sono vuoti, perfetti, immobili. Il palazzo sembra un santuario dove ogni rumore è peccato.

«Ehi! Voglio parlare con qualcuno, subito!» urlo, la voce rimbomba tra i muri. Nessuna risposta. Neanche un cameriere. Neanche un respiro.

Faccio qualche passo fuori dalla stanza, furiosa. Nessuno dovrebbe entrare nella mia camera. Nessuno dovrebbe decidere cosa indosserò. Nessuno ha il diritto di trasformarmi in una pedina da sposare.

«Avete sentito?!» grido, ancora più forte. «Non sono vostra! Nessuno può—»

Sbatto contro qualcosa.

O meglio, contro qualcuno.

Un impatto secco, il mio corpo urta una massa alta e immobile come una statua. Indietreggio, il cuore impazzito. Alzo lo sguardo.

Lui.

L’uomo più affascinante e pericoloso che abbia mai visto. Più di quanto immaginassi, persino nei miei incubi peggiori.

I suoi occhi sono scuri come l’inchiostro più profondo, allungati e lievemente inclinati verso l’alto, incorniciati da ciglia spesse e dritte che gli danno un’espressione perennemente attenta, spietatamente astuta. C'è qualcosa di antico e impenetrabile in quello sguardo, come se avesse visto più in una vita di quanto io possa immaginare in cento.

Il suo sguardo, nero come la notte coreana, mi scruta con un’indifferenza glaciale. I capelli scuri spettinati, una ciocca che gli cade sulla fronte in modo dannatamente perfetto. La bocca socchiusa, quasi infastidita. È alto, molto più di me, eppure non si muove. Le mani in tasca, la postura rigida, il busto eretto. Immobile, come se il mondo fosse suo e il mio urlo un’eco fastidiosa in un tempio.

Riven.

«Odio tutto questo baccano» mormora, la voce pacata, bassa, vellutata come seta bruciata. Il suo sguardo scivola su di me come una lama.

Non mi lascio intimidire. Stringo la mascella. «Sei stato tu a entrare nella mia stanza?»

Lui non risponde subito. Muove appena lo sguardo, una lentezza quasi teatrale. Poi le sue labbra si incurvano appena. Non è un sorriso. È qualcosa di più pericoloso.

«Camera tua?» ripete.

«Esatto!» sibilo. La rabbia mi brucia nelle vene.

Lo sbuffo che esce dalle sue labbra è appena accennato. Una risata senz’anima. Un cenno di incredulità.

«Hai una bella faccia tosta, proprio come tuo padre» dice, glaciale. «Vi basta adocchiare una cosa e subito pensate che sia vostra.»

Avanza di mezzo passo. Io indietreggio d’istinto, ma il suo sguardo mi inchioda.

«Te lo spiegherò una sola volta, Anya.» Pronuncia il mio nome come fosse veleno. O miele. «Tutto ciò che vedi mi appartiene. Persino l’aria che respiri. Quindi attieniti alle regole e non giocare con me.»

Resto in silenzio, il respiro accelerato. I suoi occhi non mi lasciano scampo. Eppure, non sono io a distogliere lo sguardo.

Lui mi studia. Non c’è desiderio nei suoi occhi. Non ancora. C’è qualcosa di peggio. Il calcolo. Il potere. La certezza che potrebbe distruggermi, se solo lo volesse.

Mi volto per rientrare nella stanza, ma appena faccio un passo, la sua voce mi gela la schiena.

«Non scappare» dice, senza voltarsi. «Sei già mia.»

Resto immobile, il fiato spezzato. La pelle d’oca lungo le braccia.

Nessuno ha mai osato parlarmi così.

Nessuno, tranne lui.

Resto ferma sulla soglia della mia stanza, con la sua voce che ancora mi graffia la nuca. Non scappare. Sei già mia.

Parole che sanno di veleno e miele. Che non avrei mai voluto sentire. Che mi bruciano dentro, e non capisco se è rabbia o… qualcosa di più oscuro e pericoloso.

Mi volto appena, solo per guardarlo da sopra la spalla. È ancora lì, impassibile, lo sguardo che ora mi trapassa come una lama nascosta in velluto. La luce del mattino filtra da una vetrata e lo colpisce di lato, disegnando un’ombra obliqua sul suo volto scolpito. Gli zigomi alti, le linee tese della mascella, le labbra serrate in un mezzo disprezzo.

Mi viene voglia di dirgli che non sono di nessuno. Che non sono una bambola da infilare in un vestito bianco per gioco politico. Che se davvero mi crede sua, dovrà sudarselo. Ma non dico nulla. Perché so che mi sta osservando, studiando ogni mio gesto. E non gli darò il piacere di vedermi reagire troppo presto.

Rientro nella stanza. La porta rimane aperta. Lo sento ancora lì, fuori. Presente. Padrone di tutto, come ha detto lui.

Mi fermo davanti allo specchio a figura intera, accanto all’abito da sposa. Mi fisso.

La pelle chiara, diafana. Gli zigomi alti, marcati come quelli di mia madre. I capelli lunghi, di un rosso profondo, raccolti in una treccia disordinata da cui sfuggono ciocche ribelli. Gli occhi — i miei occhi — di un grigio acciaio, duri e taglienti come la mia volontà. La bocca piena, stretta in una linea amara.

Non sono il tipo di ragazza che sogna di sposarsi. Sono il tipo che sa usare un coltello. Che parla cinque lingue. Che sa quando sorridere e quando colpire. Il tipo di donna che un uomo come Riven dovrebbe temere.

O desiderare, se non fossimo nemici.

Respiro a fondo. Guardo l’abito. La seta ricamata. Le scarpe rosse. Tutto perfettamente scelto. Tutto pensato per ridurmi in una principessa di porcellana.

Strappo via la rosa dal pavimento e la getto nel cestino. Le spine hanno inciso un sottile taglio sul palmo. Lascio che il sangue coli, lento. Non chiamo nessuno. Non voglio infermiere né servi. Voglio solo capire come uscire da questo inferno con la mia mente intatta.

Un bussare leggero mi scuote.

Una ragazza entra. Kimiko. Piccola, silenziosa. Una delle assistenti personali della villa. «Signorina Anya, il pranzo sarà servito tra un’ora» dice in un inglese perfetto, con un leggero accento orientale. «Desidera un bagno caldo?»

«Desidero che nessuno entri nella mia stanza senza permesso» taglio secca.

Lei abbassa il capo, impassibile. «È stato un ordine diretto.»

Lo sapevo.

Riven ha già cominciato a prendere ogni centimetro del mio spazio. Dalla mia camera alla mia libertà.

«Prepara il bagno» dico infine, glaciale. «E voglio del tè nero. Forte.»

Lei si inchina e sparisce.

Mi lascio cadere su una delle poltrone, incrocio le gambe e fisso il vuoto. Un’altra ora sotto questo tetto. Un’altra ora nelle mani di quell’uomo che ancora non so se odiare, temere… o studiare.

Mi serve un piano.

Mi serve anche tempo.

E per ora, posso solo fingere di essere quella che vogliono vedere: una pedina disposta a giocare.

Ma io non gioco mai senza un coltello sotto la lingua.

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