CAPITOLO 3
Stefania si tuffò dalla moto a testa sotto, mantenendo gli occhiali con una mano. Sapeva che, se avesse colpito gli scogli, sarebbe morta in ogni caso. Ma se ci fosse stato qualche metro d’acqua libera, sotto, tuffandosi di testa avrebbe potuto individuare eventuali scogli e scansarli, se non fosse svenuta nell’impatto. La caduta fu paurosa, terribile; il cuore sembrava fermarsi dal terrore. Infine bucò l’acqua e trovò abbastanza profondità da poter risalire con un colpo di reni, senza urtare gli scogli, che si trovavano qualche metro più sotto.
Otary invece vide l’abisso vuoto sotto di sé e capì che quel giorno sarebbe morto. Non era particolarmente esperto né di tuffi né di nuoto. Il terrore folle di quella corsa verso la morte: pochi secondi e sarebbe tutto finito. Ma non finiva mai! Lasciò la moto. Chiuse gli occhi, ma poi li riaprì: non voleva morire con gli occhi chiusi. Pregò Dio di aiutarlo, di stargli vicino, di non farlo soffrire troppo. Fece in tempo solo a pensare che i SEAL sarebbero rimasti in cinque. L’acqua gli andava incontro, vicinissima: chiuse gli occhi, e poi il buio.
Cominciava il tramonto; ma c’era ancora abbastanza luce, un raggio di sole sperduto, che attraversava la superficie del mare e illuminava il corpo di Otary sospeso sott’acqua, con una scia di sangue dalla testa. Non era stato fortunato come Stefania; pur essendo caduto nell’acqua alta, aveva sbattuto il retro della testa contro uno sperone di roccia, che si allungava dalla scogliera. Se avesse colpito quello scoglio fuori dall’acqua, sarebbe morto. La violenza dell’impatto con l’acqua gli aveva sfilato gli indumenti, lasciandolo a torso nudo. Stefania, al contrario, essendosi tuffata di testa, aveva perso scarpe e pantaloni. Aveva riempito i polmoni di aria e, invece di risalire, nuotò verso Otary; lo afferrò e lo portò in superficie. Otary tossì e gemette, ma non si svegliò. La pioggerellina cominciò a farsi più intensa e le onde ad alzarsi. Benché fosse una nuotatrice provetta e abbastanza resistente, Stefania faceva fatica a tenere la testa di Otary fuori dall’acqua. Perse gli occhiali, e questo era un guaio, perché era fortemente miope. L’acqua era fredda. La luce piano piano diminuiva. Bisognava solo aspettare i soccorsi.
Gli ospiti inizialmente non si erano avveduti di nulla, perché della moto si sentiva solo il rombo lontano. Molti inoltre erano rientrati in casa. Solo alcuni di loro si accorsero che il veicolo aveva smesso di rombare; ma, dopo pochi secondi, lo schianto agghiacciò tutti quelli che stavano fuori, e anche qualcuno all’interno. Una decina di uomini corse verso la scogliera, da dove era provenuto il fragore. Si vedeva la colonna di fumo. Anche la madre di Otary, la signora Liliu, corse disperatamente, insieme al marito e al figlio minore. Dolphin e Dugong (Na Chungho) erano i più veloci e arrivarono per primi. Grosse nuvole nere si addensavano in cielo; l’aria si era fatta scura e non era possibile distinguere con chiarezza se ci fosse qualcuno in acqua, cinquanta metri più sotto. La madre di Otary cadde a terra piangendo; il padre era come pietrificato. Tutti erano sbalorditi e guardavano verso l’incendio, come se sperassero di vederne sbucare fuori Otary e Stefania. Whale (Choi Hayoon) chiese al padre di Porpoise se avesse un drone; quindi alcuni tornarono di corsa alla casa, per attivarlo prima che la pioggia diventasse troppo forte. Trovarono gli ospiti assiepati, chi dentro chi fuori, preoccupati; avevano capito che era successo qualcosa e non sapevano cosa pensare. Dugong diede la notizia. Alcuni cominciarono a piangere; erano tutti sbigottiti, tra la speranza e la paura. Il padre di Porpoise, Whale e il fratello di Otary si riunirono attorno al drone e lo impostarono. Poi tornarono di corsa alla scogliera, sotto la pioggia.
Il drone fu lanciato verso il mare con i fari accesi. Ma la corrente aveva già trascinato Stefania e Otary molto lontano da lì. L’acqua diventava sempre più agitata, Stefania lottava per la sopravvivenza sua e di Otary. A tratti finivano sotto. La donna non si sforzava di tenere sempre la testa fuori dall’acqua, per non perdere le forze; ma cercava invece di tenere fuori la testa di Otary, per evitare che bevesse troppo. Lo teneva su dal mento, perché il retro della testa era intriso di sangue e temeva di fargli un danno maggiore, tenendolo da dietro. Un lampo incredibile illuminò a giorno la distesa delle acque. Dugong e Dolphin, che avevano una vista d’aquila, scorsero le due teste affioranti dall’acqua a parecchie decine di metri da dove stavano loro. Il padre di Porpoise indirizzò subito il drone dove i due giovani gli indicarono; Porpoise, con gli occhi spalancati dal terrore, gli stava accanto e non distoglieva lo sguardo dal monitor. Fu lui a individuare con un urlo l’amico, insieme alla signora italiana. Tutti corsero verso quel punto.
― Hanno le teste fuori dall’acqua, sono vivi! ― esclamò Whale.
― Sì, sì, sono vivi, ― dissero tutti.
― Perché Otary… tiene la testa chinata? ― chiese piangendo la madre. ― La signora gli sta tenendo la testa…
― Forse è svenuto… ― disse Dugong.
I cuori erano colmi di gioia perché l’amico era vivo, ma era chiaro come i due fossero in pericolo di vita. Il padre di Otary aveva già chiamato i soccorsi; li richiamò per informarli che li avevano individuati ed erano vivi, e che stavano lottando contro le onde, sotto il faro del drone. In quel momento un fulmine attraversò crepitando tutto il cielo e colpì esattamente il drone, facendolo esplodere.
Un diluvio si scatenò dalle nubi nerissime sul mare in tempesta. Le onde altissime si infrangevano paurosamente contro la scogliera. Gli uomini accesero le torce dei cellulari. Il fratello di Porpoise corse verso , cadendo ripetutamente, e tornò poco dopo in auto, portando delle torce. Gli ospiti erano asserragliati in casa, seduti in silenzio, o mormorando come a un funerale. Tun e Muriel, abbracciati, piangevano piano. La madre di Porpoise accese il riscaldamento.
Stefania si sentiva come un fuscello sbattuto dal vento. Resistere alla corrente era impossibile, cercava solo di restare viva e di tenere la testa di Otary fuori dall’acqua. Un’onda più alta delle altre li sbatté contro gli scogli, che Stefania aveva alle spalle. Il dolore alla schiena la fece urlare. Ritraendosi, il mare li trascinò di nuovo verso il largo; le gambe, le braccia, strusciavano contro i massi, che li scorticavano profondamente, soprattutto le gambe di Stefania, che erano nude. Otary perse le scarpe. Stefania era terrorizzata: il mare era un abisso buio e, anche alla luce fortissima dei lampi, la miopia le impediva di vedere chiaramente. In qualsiasi momento potevano sfracellarsi contro gli scogli, o sbatterci sottacqua con le gambe. Il cuore correva impazzito. Cercò di restare lucida. Prese molta aria e cercò di tranquillizzarsi, di non lottare. Non doveva avere paura del dolore, soltanto accettarlo, come quando ti torturano. Se dovevano morire, sarebbero morti, ma per ora erano ancora vivi. Vennero sbattuti più volte contro gli scogli; Stefania teneva saldamente Otary e colpiva gli scogli con la schiena, con le gambe, con i piedi, ma cercava di salvaguardare il ragazzo. Otary ogni tanto apriva gli occhi, ma era troppo debole, e confuso dal colpo in testa; la furia delle onde, e il terrore, lo stordivano di nuovo.
In casa, Mun Yonseo era al telefono con la guardia costiera. Chiamò il sindaco di Busan, un paio di ministri e il responsabile della protezione civile; ma la pioggia era troppo forte per far volare un elicottero. Dolphin, Whale, Dugong e il fratello di Otary, stesi sull’orlo della scogliera, a causa dei fulmini, sotto la pioggia battente, non riuscivano ad abbandonare al nulla il loro amico e fratello, e la simpatica signora italiana grassa, che gli teneva la testa fuori dall’acqua. A ogni lampo scrutavano la distesa tumultuosa; solo una volta Dolphin li intravide, e questo diede speranza a tutti.
Dopo quasi un’ora la tempesta diminuì d’intensità. La guardia costiera fece decollare un elicottero. Dopo un frenetico scambio di telefonate e condivisioni GPS, l’elicotterista cominciò a girare sopra l’area dove dovevano trovarsi i due malcapitati. Girò e girò per dieci minuti buoni, prima di individuarli con un grosso faro. Venne calata una fune con un soccorritore e le imbracature. Il vento troppo forte impediva che l’uomo riuscisse a raggiungerli, e una folata improvvisa stava quasi per farlo sbattere contro la scogliera. L’elicottero si impennò verso l’alto e recuperò il soccorritore; fece un giro e tornò a cercare Stefania e Otary, che nel frattempo erano stati di nuovo sbattuti contro gli scogli.
I quattro ragazzi sulla scogliera seguivano con angoscia le fasi del difficile salvataggio. Arrivò un fuoristrada con i genitori di Otary, Porpoise e suo padre, il signor Mun e Tun. A tutti fu raccomandato di stendersi, per non attirare i fulmini. L’elicottero finalmente rintracciò di nuovo la donna e il ragazzo. Questa volta furono calate solo due imbracature, troppo pericoloso tenere una persona appesa con quelle condizioni atmosferiche. Stefania raccomandò a sé stessa di mantenere la calma, mentre lo spostamento d’aria e di acqua, causato dalle pale, quasi la accecava. Afferrò la fune e rimase così il tempo di prendere fiato e concentrarsi su cosa dovesse fare. Ora, con una mano doveva tenere Otary, con l’altra manovrare l’imbracatura, e con le gambe tenersi a galla. Quindi la calma era fondamentale. Fece vari tentativi, immergendosi anche, e alla fine riuscì a legare l’imbracatura attorno al corpo di Otary. Il vento tornò a soffiare fortissimo e la pioggia a scrosciare impetuosamente. Stefania si infilò la seconda imbracatura; oramai era completamente nuda. L’elicottero cominciò a risalire e a ritirare la fune con Otary e Stefania, ma il vento li faceva oscillare paurosamente.
Dalla scogliera gli spettatori, atterriti, cacciarono un urlo. L’elicottero era stato sospinto pericolosamente vicino alla scogliera; la fune con i due imbracati la colpì, effettivamente, ma per fortuna non troppo forte. L’elicottero si allontanò barcollando dalla terraferma, non riusciva neanche a risalire. La fune non smetteva di riavvolgersi, ma talmente lentamente che sembrava a Stefania che non si muovesse quasi; il vento li faceva oscillare avanti e indietro come se fossero stati due tappi di sughero. La pioggia raddoppiò. L’elicottero di nuovo stava per essere sbattuto contro la scogliera.
Stefania aveva sperato con tutte le sue forze di salvarsi. Ma vedeva come i suoi ottanta chili fossero un ostacolo che stava mettendo in pericolo tutti. Fintanto che aveva il mare sotto… Si slacciò l’imbracatura. Avrebbe voluto che qualcuno la guardasse, in quel momento, e le dicesse che era davvero coraggiosa eccetera. Magari Tun o il signor Mun, il grande e potente Mun Yonseo, che non avrebbe perso un SEAL quella sera…
Invece la sua morte sarebbe stata nella solitudine, come lo era da tempo la sua vita. Nemmeno Otary la poteva guardare, salutare, ringraziare, abbracciare… Aveva paura, follemente paura di quel salto, ma doveva slacciare ancora solo l’ultima fibbia…
