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Capitolo 2 - Il campanello del destino

Quel giorno James era impeccabile nel suo costosissimo completo giacca e pantaloni color senape e camicia bianca ineccepibilmente stirata, uscita vittoriosa nell’ultima lotta ingaggiata contro le pieghe. Il suo andamento flessuoso e dinoccolato da prima ballerina di Brodway avrebbe fatto morire d’invidia qualsiasi ragazza nel raggio di un chilometro.

Lo provava allo specchio? Dall’ultima volta che si erano visti, le pareva ancora più enfatizzato e minuziosamente studiato per rimarcare la sua innata eleganza e i suoi illustri natali. Si era sempre domandata il perché il sig. Morales lo avesse lasciato giocare con lei durante le vacanze estive considerando l’abissale differenza fra le loro estrazioni sociali. Certo, in quei pomeriggi afosi in riva al lago era facile dimenticare che James avrebbe ereditato il fruttuoso impero finanziario della cooperativa del paparino di cui era il maggiore azionista, mentre lei, se baciata dalla fortuna, avrebbe diviso con la sorella qualche cimelio ammuffito della prozia Geltrude senza poterne ricavare un granché in caso di vendita al banco dei pegni. Lei comunque non gli aveva mai dato troppo peso, la sua compagnia era più che sufficiente a tirarle su il morale da quelle giornate mortalmente noiose, quando ancora era troppo piccola per interessarsi ai libri e coltivare la sua crescente misantropia nei confronti del mondo.

Condividendo entrambi uno spassionato amore per le barbie, fu facile per loro entrare in sintonia e diventare indispensabili l’uno per l’altra, facendo fronte unito contro la malinconica solitudine che altrimenti gli prospettavano quelle lunghe estati lontane dai centri urbani pullulanti di vita. Facevano a gara a chi inventava la storia migliore, rendendo le loro bambole protagoniste delle scene più raccapriccianti di drammi coniugali, con tanto di assegni di mantenimento e affidamento minorile (termini origliati qui e lì dalle consulenze della signora Morales che esercitava come avvocato divorzista. Anni dopo Eleanor avrebbe scoperto che era stata proprio la madre di James ad occuparsi del divorzio dei suoi). Allora erano solo due bambini bisognosi di liberare il proprio estro creativo, ma fu subito chiaro a Eleanor che il Ken di James non si trovasse a proprio agio circondato da tutte quelle biondine dalle articolazioni rigide. Così quando l’estate successiva lei si decise ad aggiungere qualche Ken Carson in più alla sua collezione fino quasi a livellare quell’incresciosa disparità di genere, gli action figure dai capelli plastificati delle storie di James trovavano più spesso l’anima gemella e le loro storie d’amore ottenevano il loro lieto fine. Le scappava ancora qualche lacrimuccia se ripensava alle vicende tormentate del Ken bagnino e il Ken passione giardinaggio.

James non era cambiato molto: stessi capelli rosso fuoco e occhi vispi capaci di espugnare le sue difese strato dopo strato con un solo lungo sguardo indagatore. Lei non aveva molto voglia di aggiornarlo sugli ultimi fallimenti freschi di giornata, era lì per una rimpatriata e non per spingerlo a compatire le sue disgrazie. Sulle prime si mantennero sul vago, parlarono delle rispettive famiglie, del suo dojo, delle loro carriere universitarie e dell’ultimo concerto di Katy Perry a cui aveva partecipato. Risero e scherzarono di fronte a due frappè alla fragola, riscoprendo piano piano la semplicità della loro amicizia. Fino a quando, spinta dalla colloquialità della discussione, si inoltrò imprudentemente nelle sabbie mobili di un argomento che, col senno di poi, non avrebbe dovuto toccare per prima.

«E che mi dici di Carlos? Non mi hai più raccontato come è andato il vostro viaggio ad Amsterdam» lo punzecchiò, sorseggiando il frappè. Si pentì subito della domanda alla vista della sua espressione corrucciata e le si chiuse l’epiglottide, incastrandole il frappè in gola. Fu sicura d’intravedere in quella piccola ruga fra le sopracciglia, rosse come la radice dei capelli, tutti i rimpianti portati a galla dalla menzione di quel nome.

James guardò fuori dalla vetrata, forse perché per lui era più facile discutere di quello spinoso argomento senza nessuno in grado di leggere la sua nostalgica malinconia «Quando quella pettegola di Marie ti ha contatto, non te l’ha detto? Gli ho fatto trovare la sua valigia fuori dalla porta una settimana prima della partenza. Ho ridotto i biglietti aerei a brandelli davanti a lui solo per il puro piacere di godermi la sua faccia attonita, e sai che c’è? È stato impagabile. Vederlo strisciare ai miei piedi, elemosinare il mio perdono. Assistere all’esatto momento in cui il suo cervello registrava di essere con un piede della fossa. Avrebbe dovuto pensarci due volte prima di infilarsi nel letto sbagliato» disse scuotendo la testa.

«Oh, James…mi dispiace così tanto» mormorò Eleanor con le guance in fiamme, nonostante fosse perfettamente conscia che la sua solidarietà non avrebbe lenito la sua ferita.

«Sono la solita idiota con la delicatezza di un pachiderma in una cristalliera. Io non dovevo…».

«È tutto ok, El. Sono passati mesi ormai, sto bene. Sai che recupero in fretta» la rasserenò con un sorriso poco convincente.

«Se solo me ne avessi parlato, avrei trovato un modo ingegnoso per fare cantare le sue ossa…» propose lei con aria meditabonda.

«No, El. Niente pestaggi alla karate kid. Non sopporterei di vederti dietro le sbarre per un tipo come lui».

«E chi ha detto che mi sarei lasciata acciuffare?» dichiarò lei offesa, tirando su col naso.

James soffocò una risata «Tu saresti l’ultima scelta possibile se dovessero reclutare un gruppo di malviventi per una rapina in banca. Ammettilo, tu e la furtività non siete mai andati d’accordo. La tua fama ti precede…non ricordo un solo dei tuoi piani che sia andato a segno. Come quando abbiamo tentato di rubare la torta di mele a miss Cheekbones…».

Eleanor si mosse a disagio nella sedia, mordicchiando l’estremità della cannuccia «Se non ci fosse stato quello stupido gatto guardiano ci saremmo riempiti le pance fino a scoppiare…».

«Oh, non lo metto in dubbio…» concordò senza abbandonare la sua ilarità «e che mi dici di te? Non ti sei stufata ancora di questa roba?» disse facendo un gesto sprezzante in direzione del suo libro aperto sul tavolo. Eleanor provò seriamente a non incendiarlo con una di quelle occhiate intimidatorie che riservava spesso ai suoi piccoli allievi quando sbagliavano una figura, ma con scarsi risultati.

«La Bardugo potrebbe scrivermi la carta igienica e sarebbe comunque un reliquiario da esporre in una teca» borbottò imbronciandosi.

«Non prenderla sul personale. È solo che ricordavo che avessi anche tu qualcosa in cantiere e so con quale facilità molli un progetto che si pronostica impossibile da realizzare. Ho dato un’occhiata alle tue bozze e non erano niente male…Sono convinto che il tuo Alchemia meriti delle pagine su cui essere stampato. Il mondo dell’editoria fantasy è una giungla ricca di predatori, ma se sapessi come muoverti…».

«Mmm sento odore di proposte nell’aria…» esclamò lei tutta deliziata.

«In effetti hai naso per certe cose El. Diciamo che per ipotesi avrei dei contatti con una celebre casa editrice, sarei felice di farti da sponsor e guadagnarmi una bella fetta della torta».

Eleanor si spostò un ciuffo dalla fronte «Oh, James…e poi dici di non essere figlio di tuo padre, stupido predatore a caccia di occasioni. Stai attento con tutte queste torte o ti verrà una carie» disse piantandogli un innocuo pugnetto sul braccio «Non sono sicura di essere un buon investimento. Dovresti sapere che la fortuna mi snobba praticamente da quando ho aperto gli occhi fra le braccia di mia madre…».

«Io invece la reputo un’amica di vecchia data» disse lui con quel ghigno da sberle.

«Ah, ah, ah non fare il ricco ragazzino viziato con me».

«Non ho bisogno di vantarmi con te, mi conosci. Vorrei soltanto che non ti sottovalutassi così. Hai talento El, e se non hai ancora trovato un lavoro è solo perché evidentemente non hai ancora imboccato la strada giusta. Ma guardati, sembri una vecchia zitella gattara. Non ti riconosco più».

«Non posso essere definita gattara se non possiedo nemmeno un gatto. Forse dovrei adottarne qualcuno per corrispondere a quel profilo».

James si ritrovò a sospirare «Da quant’è che non ti vedi con qualcuno?».

«I gruppi di studio con Marie e le sue amiche valgono se…».

«Eleanor…» pronunciò il suo nome come se fosse l’ottava piaga d’Egitto, massaggiandosi le palpebre con le dita.

«Ma ci sono anche i salatini e gli orsetti gommosi!» s’infervorò lei.

«Intendevo con un…ragazzo. Tipo appuntamento, sai: rosa, ristorantino francese, violini di sottofondo». Lei lo guardò come se le avesse parlato in una criptica lingua aliena. Poi fece spallucce «Tecnicamente tu sei un ragazzo e questo è un appuntamento fino a prova contraria. Sono allergica alle rose, e poi detesto la cucina francese e i violini, mi ricordano i funerali. E va bene…ho incontrato un certo Kaz».

«I personaggi fittizi dei tuoi libri non valgono. Mi riferisco a un essere umano in carne ed ossa. Santo cielo, ma cosa c’è che non va in te…».

«Sai benissimo cosa c’è che non va, James».

«Io non volevo…»

Lei lo interruppe, iraconda come poche volte lo era stata «Cosa, ferirmi? Questo sembra il tuo sport nazionale al momento. Be’, spero che parteciperai anche tu alle olimpiadi insieme a mio padre e a tutto il resto di questo schifo di mondo». Fece per alzarsi ma James le ghermì il polso prima che potesse afferrare la borsa. Quel breve contatto le fece raffreddare il sangue nelle vene e rallentare le pulsazioni del suo cuore. Abbassò gli occhi sulla stretta attorno al suo braccio. La pelle era fresca contro la sua, invece febbricitante. Deglutì dolorosamente la bile, amara come fiele e cicuta. Le fitte ai polmoni le ricordarono che aveva smesso di respirare. Fu solo un’istante e i contorni del locale si sfocarono attorno a lei, era tutto così tremendamente fuori fuoco. La notte scese su di lei portando con sé il gelo di quell’inverno. Il fiume inferocito che scorreva sotto il ponte. Quel maledetto lampione che sfarfallava, lasciando che le ombre la trovassero. Delle risate ovattate che puzzavano di alcol. Lo sportello dell’auto che la imprigionava nei sedili posteriori con lo scatto della sicura. La sua mano che lasciava impronte sudate sul finestrino.

No. Quello era il suo amico James. Non le avrebbe fatto del male. La nebbia dei suoi pensieri si diradò lentamente. Lei si trovava da Alì, circondata da decine di persone.

«Eleanor, ti senti bene?» la raggiunse una voce.

Lei sbatté lentamente le palpebre. Fuori aveva smesso finalmente di piovere. Si deterse il sudore che le si era impigliato in un sopracciglio e prese una boccata d’aria. Sorrise a quei grandi occhi neri e curiosi che la fissavano ansiosi. Alì, il giovane proprietario, le offrì un bicchiere d’acqua, ma lei declinò educatamente.

«Sì, sto bene. Deve essere stato un calo di pressione» ritentò con quello stentato sorriso, pregando di essere più convincente.

«Sì, Alì non c’è nulla di cui preoccuparsi a volte è un po’ lunatica» intervenne in suo soccorso James «ma visto che sei qui, ho il piacere di presentarti la tua nuova apprendista» disse presentandogliela con un gesto plateale. Eleanor scosse il capo come per scrollarsi di dosso quelle parole che le si erano incastrate nelle orecchie e a cui non riusciva a dare senso.

«Cosa?» domandò facendo scorrere lo sguardo da lui ad Alì in cerca di risposte. Ma la sua più che giustificata perplessità le fece guadagnare un calcio dritto nello stinco da sotto il tavolo. Si morse le labbra per non urlare. L’occhiata in sordina che seguì, invitandola al silenzio, fu più che eloquente.

«È la ragazza di cui ti parlavo, ricordi?» continuò James come se nulla fosse «Ha delle ottime referenze, non è una novellina del mestiere e se le togliamo quegli orrendi occhiali e accorciamo un po’ più le sue gonne sono sicuro che piacerà alla gente». Eleanor gli avrebbe dato una morte lenta e molto dolorosa…

Alì incrociò le braccia facendo la radiografia alla ragazza «Suo aspetto, no problema per me. Io disperato bisogno di lavapiatti che svuoti lavello in poco tempo, no importa se metta divisa o il sari come in festa Diwali. Io contento se lei avere tante braccia come dea Kali per servire tavoli. Tu dea Kali, sì?».

«Ehm, più o meno…» squittì lei sebbene non avesse la più pallida idea di cosa stesse parlando.

«Vedrai non te ne pentirai» disse James come se avesse già l’affare in tasca.

«Tu corri troppo amico mio. Io mette in prova lei e altro ragazzo bianco che chiesto questo lavoro. Do loro mese di tempo e poi decido chi assume. Molto semplice, haan?».

«Non sapevo che avesse concorrenza. Mi sembrava di averti detto che per lei questo lavoro fosse importante».

«Uguali opportunità per tutti. Se lei brava come tu dice, dov’è problema? Noi dare ben servito a uomo bianco, haan?».

Eleanor alitò sui vetri degli occhiali per poi strofinarli sulla maglia di cotone.

«Posso farcela» dichiarò, inforcandoseli sul naso.

«Bene!» esclamò Alì asciugandosi le mani unte di grasso sul grembiule su cui erano già state stampate le sue impronte diverse volte. «Voi iniziare lunedì prossimo alle nove e mezza in punto. Solo minuto di ritardo, siete fuori. Se rompete qualcosa, siete fuori. Se cliente no felice, siete fuori. Se litigate fra voi…».

«Fammi indovinare» lo fermò lei «siamo fuori?».

«Lei mi piace già, impara in fretta» disse Alì facendole l’occhiolino prima di essere fagocitato nuovamente dalle esigenze frenetiche del locale in subbuglio.

Eleanor attese che Alì scomparisse dietro i fornelli per perorare la sua sagra di sguardi affilati in direzione del suo amico d’infanzia. «E così credi nel mio talento, eh? In effetti con le padelle sono piuttosto brava, soprattutto a brandirle come armi…».

«Non c’è di che, El, se ti ho appena trovato un modo per mantenerti l’affitto e pagarti la retta universitaria. Per gli amici questo e altro».

«Aspetta un attimo come sapevi dello sfratto? Marie, non è vero?» sospirò Eleanor contro la panca.

I polpastrelli ingialliti dalla nicotina di James giocherellavano distrattamente con la rotellina dell’accendino. Era così tesa che se le avesse offerto una sigaretta avrebbe accettato senza esitare di riempirsi i polmoni di catrame «Non c’è nulla di cui vergognarsi ad essere in difficoltà. Ma siccome sapevo perfettamente che non avresti mai accettato il mio aiuto, ho forzato un po’ le cose, spero non ti dispiaccia».

«In realtà è più un amore-odio quello che si agita dentro di me in questo momento. A mente fredda mi assicurerò che sia soltanto l’odio a sopravvivere».

«Impossibile, tu mi adori».

Lei fece del suo meglio per apparire contrariata «Non ti si può nascondere nulla» disse con tono petulante, ignorando il trionfo che prendeva spazio nel sorriso del suo amico. Il campanello alla porta suonò di nuovo e per un attimo la tiepida cupola del locale si riversò per le strade, innestandole brividi lungo la schiena. Il suo mezzo sorriso s’infranse in mille pezzi e sarebbe stato impossibile raccoglierne i cocci sparsi sul pavimento. Allora non poteva sapere che sarebbe stato l’inizio di tutti i suoi incubi. Se ne avesse avuto il minimo sentore, avrebbe chiesto a James di schiaffeggiarla prima che cadesse in quel disperato sonno agitato.

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