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Capitolo 1 - Rimpatriate

Quel settembre aveva deciso di bandire l’arsura afosa dell’estate in anticipo per dare il benvenuto alla stagione dei diluvi universali. Le strade trafficate del Upper east side erano in balia di un’esondazione fluviale in piena regola come se il cielo gli stesse vomitando addosso mesi e mesi di arretrati di pioggia. Eleanor non si sarebbe sorpresa di trovare un’enorme arca di Noè laccata di giallo alla fermata dei taxi, sicuramente avrebbe potuto sperare in un tariffario migliore. Quel denso carico di nuvole nere stava gridando la sua vendetta alla canicola che fino a pochi giorni prima l’avevano costretta a trasferirsi stabilmente sotto il getto d’aria del ventilatore. Lei amava la pioggia, il suo rumore scrosciante e l’odore che si sprigionava dalla terra umida. Non era altro che una banale scusa per restarsene infagottata fra piumoni colorati, in compagnia di un buon libro e di una fumante tazza di cioccolata calda a scaldarle le mani mentre sbirciava i commenti al suo blog. Quella piacevole attività però richiedeva come requisito minimo un posto dove stare e al momento lei non era altro che una povera studentessa di filosofia errabonda, sfrattata dall’ennesimo affittuario spazientito dai suoi reiterati mancati pagamenti. Com’è che l’aveva chiamata quando le aveva tirato addosso la sua roba? Se solo avesse ripetuto ad alta voce quell’epiteto pittoresco avrebbe fatto arrossire il più scanzonato dei camionisti.

Non era un mistero che la sua famiglia non navigasse nell’oro, specialmente dopo che suo padre aveva abbandonato lei, sua madre e sua sorella per un paio di giovani chiappe sode fasciate da leggings mimetici. Lasciavano davvero poco all’immaginazione e non facevano che ravvivare l’inconsueto interesse di suo padre per lo yoga. Sua madre avrebbe dovuto sospettarlo. Prima quel pensiero la nauseava, ma adesso aveva raggiuto una sorta di apatico stoicismo che le permetteva di seppellirlo in un cantuccio ben protetto, nascosto nel dedalo della sua mente. Si era ripromessa che non gli avrebbe mai più dedicato anche un solo respiro del suo tempo, questo però non significava necessariamente che il dolore fosse sbiadito completamente tra le pieghe del suo odio.

Le lezioni al dojo le consentivano a malapena di pagare la piccola quota della retta universitaria non sovvenzionata dalla sua borsa di studio e sua madre, con quello che stava affrontando, non le era granché di aiuto. A dire la verità non lo era mai stata. Da quando aveva quindici anni, Eleanor aveva cominciato a rimboccarsi le maniche con qualche lavoretto saltuario che, con le spese mediche per la sorella, non le garantivano nemmeno di mettere da parte un gruzzoletto per sé.

Il suo curriculum vantava un modesto assortimento di esperienze stravaganti che sfortunatamente non le avevano fatto mai guadagnare il titolo d’impiegata del mese. Il vortice di disgrazie aveva avuto inizio con quello stupido banchetto delle limonate, quando da brava coccinella pluri-medagliata aveva dichiarato guerra al club degli scoiattoli, battendosi fino all’ultimo bicchiere per l’egemonia del quartiere. Un quartiere che aveva passato la notte seguente abbracciato ai propri water di ceramica a causa sua e di quella partita di limoni comprati alla metà del prezzo. Quell’episodio avrebbe dovuto farle capire fin da subito che non avrebbe mai avuto fiuto per gli affari. I suoi impieghi duravano quanto un pacchetto di sigarette in mano a un drogato di nicotina. Ispirata da uno dei suoi personaggi preferiti, si era improvvisata trapezista di un circo itinerante, ma poi era finita con l’intenerirsi di un leoncino emaciato che non aveva nemmeno più voglia di ruggire; poco prima di esibirsi decise di anticipargli il pasto serale, lasciando accidentalmente il chiavistello della gabbia allentato…Fu un bene che quello spettacolo non vide mai la luce. Da improbabile circense era passata a battere i codici a barre come cassiera di un supermercato. Dicono che la sfiga non esisti, ma da quando si era ritrovata ostaggio di una rapina a mano armata, se vedeva un gatto nero cambiava subito strada e preferiva fare il giro largo piuttosto che passare sotto una scala. Da quel momento in poi si era affidata all’ufficio risorse umane e agli annunci ritagliati dai quotidiani. Seguirono un breve impiego come aiuto pasticciera (i cupcake le riuscivano a meraviglia!), come operatrice di un call centre di telefonia, ma era stata mandata così tante volte al diavolo da sfidare ogni record mondiale, e nel fine settimana arrotondava facendo la dog-sitter di Schizzo, un simpatico jack-russel che le aveva cosparso di urina la tesina qualche giorno prima del diploma. Poi c’era stata la volta in cui una sua amica l’aveva raccomandata come cameriera di un nightclub gestito dal cugino, ma si era licenziata quasi subito dal momento che riceveva mance da fame e ai clienti piaceva allungare un po’ troppo le mani. Ovviamente nessuno di quei squallidi beoni era riuscito a invadere il suo spazio vitale senza che lei provasse a fratturargli le falangi una ad una, dimentica della severa politica aziendale che le vietava categoricamente di reagire. Il gioco non valeva affatto la candela, e lei non poteva permettersi lo psicanalista quando aveva una sorella non autosufficiente a cui badare. Non c’era nulla che temeva di più come il respiro caldo di un uomo sulla sua pelle. La disgustava. Non indugiava mai sul ricordo di quella sera o avrebbe fatto i conti coi respiri corti e i folli battiti del suo cuore…Per fortuna aveva imparato ad arginare i confini di quell’incubo e ridurre la frequenza degli attacchi di panico. Sulle prime il karate era stato soltanto una valvola di sfogo, ma poi attraverso la fluidità artistica di ogni kata era entrata in armonia con sé stessa, lasciandosi alle spalle le ombre che la perseguitavano.

Eleanor contava numerose cicatrici invisibili, ma si guardava bene da non farne un manifesto. Schermate dai suoi grossi occhiali, ingolfate dai suoi orribili maglioncini a collo alto e tenute al riparo delle sue gonne lunghe anti-sesso, imbrigliava le sue fobie al di sotto di essi e non permetteva a nessuno di venire a conoscenza della loro esistenza. Era la sua armatura migliore. Le garantiva l’invisibilità e non c’era nient’altro che lei potesse desiderare. Non si truccava, abborriva la cosmesi come un felino con l’acqua, e non perdeva molto tempo allo specchio ad allisciarsi i capelli finché avrebbe potuto farsi la treccia. Preferiva non essere vista che essere apprezzata da viscidi sguardi invasivi. Non doveva ringraziare nessuno per i suoi numerosi successi scolastici o per la sua borsa di studio alla Columbia, se non sé stessa. E questo l’appagava profondamente. Solo che con l’orgoglio non ci manteneva l’affitto e aveva bisogno al più presto di una soluzione.

Eleanor sollevò il capo come se le potesse piovere dal cielo. Ma tutto ciò che ottenne fu una pioggia battente sulle lenti degli occhiali. Si accontentò di osservare il mondo attraverso le gocce che le punteggiavano i vetri. Represse l’impulso di conservarli nella borsa, senza ormai si sentiva praticamente nuda. Invidiò il parabrezza delle auto con i suoi frenetici tergicristalli, non sarebbe stata una brutta idea applicarseli sulle sue asticelle. Le luci dei fanali e le insegne stroboscopiche dei locali costeggiati dai marciapiedi s’infrangevano sulle pozzanghere in uno spettro prismatico di arcobaleni variopinti e le foglie fracide tappezzano il selciato come un puzzle di macchie marroni. Il brusio brontolante delle marmitte si perdeva nel frastuono del temporale, avvolgendo la città intera nella fitta coltre mistica dell’alluvione. Eleanor affrettò il passo aggrappandosi al manico del suo ombrello mentre i lampi luccicavano sulle superfici vitree dei grattacieli. Gli stivali di gomma appesantiti dal fango squittivano sotto gli orli inzaccherati della gonna, facendole credere di avere alle calcagna un esercito di pantegane. Era in giornate come questa che rimpiangeva amaramente la sua categorica repulsione per i mezzi pubblici, come se le sue passeggiate potessero contribuire a mitigare gli effetti nocivi dello smog. Una patetica goccia in un mare agitato di trasgressori laboriosi con l’unico scopo di favorire l’inquinamento atmosferico.

Svoltò sulla 48esima evenue, schiavando i passanti come meglio poteva, e sospirò di sollievo quando scorse il cartello pubblicitario del menù del locale dove James le aveva dato appuntamento. Il tabellone sporgeva oltre la tettoia, totalmente esposto alla furia incessante dell’acquazzone. La carta era così annacquata che non si riusciva a leggere più nulla, ma la ragazza decise comunque di fare un favore a quello sbadato di Alì e metterlo al riparo. Aprì la porta del bar e si lasciò piacevolmente investire dagli effluvi vaporosi della cucina che profumavano l’ambiente di vaniglia e zucchero bruciato. I tavoli erano quasi tutti occupati. Molti come lei non si erano fatti scoraggiare dal mal tempo, e come dargli torto, Alì serviva i migliori Gulab jalun della città, una specialità tipica del suo paese rivisitata nella sua variante al cioccolato fuso per adattarsi agli esigenti palati americani. Eleanor si accomodò al tavolo proprio mentre il proprietario impiattava le sue succulente bacche di rose cospargendole di una fluida e dolce benedizione di miele che le faceva venire l’acquolina in bocca. Il dinosauro che abitava nel suo stomaco non tardò a farle sapere la sua nonostante avesse già ricevuto la colazione. Compresse la pancia per attutire quell’imbarazzante brontolio e, per rendere più piacevole l’attesa, tirò fuori il suo Six of Crows immergendosi nella lettura e cacciando fuori dalla sua bolla paradisiaca il gorgoglio dell’olio di frittura, il tintinnante spadellamento della cucina e il cicaleccio assordante dei clienti. Lo scampanellio alla porta la costrinse ad alzare gli occhi dai suoi amati dregs di Ketterdam per osservare il nuovo arrivato scrollarsi i residui della pioggia dall’impermeabile che gocciolavano sul pavimento. Eleanor sollevò la mano a mo’ di saluto nella sua direzione ricevendo in cambio uno smagliante sorriso dal luccichio perlaceo che si estese anche agli occhi di un chiaro azzurro slavato e ibernante.

Sì, era proprio lo stesso stravagante e inimitabile James. E non vedeva l’ora di dare inizio a quella rimpatriata che si preannunciava ricca di sorprese.

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