CAPITOLO 5
KYLA
«Sei un coglione! Che cazzo le hai detto eh? Pensi che io non mi renda conto di come la tratti ogni giorno? Non prendertela con lei, sono io il problema. Tu non sai cosa ha passato quella ragazza, tu non hai rispetto per niente e nessuno».
Aprii gli occhi dopo aver sentito Daniel gridare.
Mi trovavo ancora nella mia stanza, ma era giorno perché la luce della finestra mi colpiva dritta in viso.
Girai la testa. Jayden, suo padre ed Austin, stavano discutendo sulla porta.
«Jay, cosa è successo ieri sera?». Austin provò a calmare il suo amico, visibilmente agitato.
«Andate a fanculo ok? Non è successo niente! Me ne vado».
Quando Jayden lasciò la stanza, le loro facce sembrarono molto preoccupate.
«Cosa ci fate voi due qui?». Chiesi all’improvviso.
I due si affrettarono ad avvicinarsi a letto.
«Kyla, mi dispiace così tanto».
Scossi la testa in risposta a Daniel. «Non è successo nulla ieri sera».
Presi fiato. «Sì, Jayden ed io abbiamo discusso, ma io ho avuto un attacco di panico non a causa sua».
Austin mi prese la mano. «Hai sbattuto la testa, ti sei alzata e sei caduta all’indietro».
Non ricordavo nulla.
«Poi Jayden è entrato e ti ha trovato in un lago di sangue».
Scoppiai a ridere dopo le parole di Austin. «Non credo fossi in un lago di sangue».
Sorrisero anche loro. «Hai avuto paura?».
«Daniel tuo figlio non mi ha mai fatto del male e non credo che lo avrebbe fatto ieri sera, sono contenta che sia entrato altrimenti non sarei qui».
Perché lo stavo difendendo? Perché non dicevo la verità?
«Eppure so che è colpa sua quello che ti è successo. Dovevi essere sconvolta per chiuderti a chiave nel bagno».
Annuii. «Daniel ci sono ancora delle cose che mi bloccano e che non riesco a superare, ma lui non può saperlo».
Si guardarono per un attimo, giusto il tempo per sospirare e andarsene. Il dottore che mi aveva visitato poco prima, aveva detto che avrebbero dovuto lasciarmi a letto qualche ora prima che io potessi rialzarmi.
«Il dottore tornerà stasera, ora riposati».
Non so per quale esatto motivo, invece di seguire le istruzioni, dopo un tonfo impressionante che avevo sentito, mi alzai di scatto per bussare alla porta di quell’odioso uomo perfetto.
«Non voglio nessuno!». Urlò.
La porta però si aprì non appena spinsi la maniglia e, anche sapendo di fare una cosa che solo una pazza avrebbe fatto dopo quello che era successo, entrai.
«Cosa non capisci tu?».
Sentivo la sua rabbia anche a distanza. Mi accorsi subito del muro intaccato e delle sue nocche piene di sangue.
Alzai le mani in segno di pace.
«Volevo vedere come stavi, ho sentito un rumore forte e mi sono preoccupata».
Sorrise, come se fosse stato pazzo. «Davvero? Ti sei preoccupata di uno che ti ha quasi ucciso?».
Scossi la testa. «Non è colpa tua quello che è successo».
In fondo era così. I miei mostri del passato mi avevano portata a reagire in quel modo alle sue parole, se ci fosse stata qualsiasi altra persona che non avesse avuto i miei stessi demoni, non sarebbe successo nulla.
«Lo so, volevo essere ironico, ma tu non riesci a capire neanche queste cose».
Restò in piedi a fissarmi. Era davvero difficile parlare con lui, anche solo capirlo.
«Non sei l’unica qui dentro ad avere dei problemi, ma tutti si preoccupano per te, tutti danno la colpa a me. Quindi, posso solo odiarti ragazzina».
Annuii. «Non sono qui per discutere. Ho capito come la pensi e non voglio procurarti altri problemi». Mi girai, volevo andarmene da quella stanza ma lui, con quei suoi occhi, mi tratteneva anche non volendo. «Non mi parlerai mai dei tuoi problemi, io non ti parlerò mai dei miei, ma se vuoi essere rispettato, dovresti cominciare a rispettare anche tu gli altri».
Di nuovo, quei passi veloci, lui dietro di me.
«Tu devi solo starmi alla larga e vedrai che non appena mia madre sarà tornata, tutto si sistemerà ed io potrò finalmente essere libero da te».
Alzai le spalle, non gli rivolsi neanche lo sguardo.
«Mi dispiace. Qualsiasi cosa sia accaduta, mi dispiace».
Ero sincera. Chiunque soffrisse meritava almeno di essere ascoltato. Non mi avrebbe mai confidato nulla, ma volevo che sapesse che in fondo, se aveva anche lui dei demoni, non serviva fare lo “stronzo”, perché la barca era uguale per entrambi.
«Io non devo essere salvato da te. Tu non sei nessuno e non lo sarai mai. Ogni volta che mi avvicino a te, finisce che sono tutti contro di me».
Potevo sentire il suo respiro tra i miei capelli. Mi girai verso di lui.
«Da oggi in poi, io e te non ci ritroveremo più nello stesso luogo, tu non verrai mai più a bussare alla mia porta, non ci rivolgeremo più la parola».
Continuava a parlare, ma nel frattempo si avvicinava troppo.
«Non mi starai più tra i piedi, non ci incroceremo più per nessun motivo, anche se dovessero venire i Reali in casa nostra».
Il mio cuore aveva ripreso a battere come se fosse impazzito. Lui riusciva a sentirlo, perché si era fermato nello stesso momento in cui lo avevo sentito io.
«Ma prima di fare tutto questo, prima di torturarti con la mia assenza, c’è una cosa che devo fare ragazzina, perché meriti di stare male come sto male io in questa situazione».
Mi spinse contro il muro.
«Se tutti sono dalla tua parte, allora tu non riuscirai mai a smettere di pensare a me».
Sorrise ed io presi fuoco.
Le sue labbra toccarono le mie in quell’istante. Morbide e carnose. La potenza con cui mi strinse i fianchi per paura che io scappassi via da quel bacio, mi provocarono un giramento di testa così piacevole che pensai che dovesse essere quella l’eccitazione.
La sua lingua aprì la mia bocca senza sforzo, lo lasciai fare qualsiasi cosa.
Inerme, sbattuta al muro, baciata solo perché quello era l’unico modo per farmi capire che lui non mi voleva, perché io capissi che uno come lui non l’avrei mai avuto. Ed io, che avrei voluto che lui mi facesse del male in quel modo ancora e ancora…fino allo sfinimento.
Le mie mani si alzarono involontariamente, le posai sul suo collo e la presa delle sue mani su di me si fece ancora più potente. Avvicinai il suo viso al mio, continuai a rispondere alla sua bocca come se fosse un’estensione della mia. Non stavo neanche respirando perché non volevo che lui potesse staccarsi da me, nonostante sapessi alla perfezione che lo avrebbe fatto senza problemi non appena avesse voluto.
Cominciai a perdere le forze ogni minuto che passava. Ogni parte di me ne voleva ancora di più.
Tanto che quando cominciò a sbottonarmi la camicetta, non mi resi conto di cosa esattamente stessi facendo, di cosa gli stavo permettendo di fare.
«Signorina Kyla??».
Leyla ci svegliò dal sogno, ed io, con le labbra gonfie e doloranti, con la camicia sbottonata a metà, con le sue mani ancora su di me, e con i suoi occhi ormai fissi sui miei, ripresi a respirare.
Scossi la testa incredula da quello che era successo, perché se nessuno avesse interrotto quel momento, gli avrei lasciato fare qualsiasi cosa. Sapevo che non sarebbe stato giusto, ma il suo tocco mi aveva ipnotizzata.
I nostri respiri affannati si mischiarono ma, seppur continuando a guardarci, nessuno dei due parlava.
«Signorina??».
La voce di Leyla si faceva sempre più vicina, e quando bussò alla stanza di Jayden, lui mi chiuse nel bagno della sua camera per aprirle.
«Hai visto Kyla? È scomparsa ma deve prendere le medicine…devo chiamare tuo padre?».
«No, dammi. Ci penso io a cercarla ok? Ti chiamo non appena torna in camera».
Leyla annuì e poi la porta si richiuse.
Uscii dal bagno ancora scossa. Lui aprì la sua mano verso di me per darmi le pasticche ed io sentii un brivido anche solo sfiorando le sue dita.
«Kyla? Stai bene?».
Quale forma di gentilezza. Non era farmi stare male quello che voleva?
«Sì, io ecco…credo di dover andar via».
Me ne andai in fretta, senza guardarlo.
Mi sentii sporca quando, allo specchio, mi resi conto dei piccoli lividi che avevo sul labbro superiore, delle sue mani stampate sui miei fianchi e della camicia ancora aperta.
Sarebbe andato avanti davvero? Sarebbe arrivato a tanto pur di farmi soffrire?
***
JAYDEN
La motivazione per cui continuavo a volerle fare del male, mi aveva spinto troppo in là quel giorno. Non sapevo cosa le fosse accaduto prima di venire in casa mia, ma ogni parola, qualsiasi mia offesa, non l’aveva mai scalfita tanto come quella sera.
Avevo detto qualcosa di diverso? Avevo usato un tono diverso?
Non me ne resi conto. L’unica cosa a cui pensavo, era la sua testa graffiata, lei svenuta, il sangue a terra.
L’avevo seguita perché non avevo finito di parlarle, perché volevo dirle talmente tante di quelle cose da farla piangere, da farla scappare davvero, ma le avevo solo procurato danni fisici, le avevo fatto del male veramente, ma non come volevo.
Parlavano tutti dei suoi problemi, mio padre conosceva la sua storia eppure sembrava fosse un segreto di Stato. Nessuno ricordava i miei, nessuno ricordava quello che invece avevo dovuto subire io e nonostante mi fossi impegnato da subito a rimettermi in piedi, continuavano tutti a vedermi come un coglione.
Avevo chiamato i soccorsi, avevo chiamato mio padre, le avevo tolto il sangue e le avevo medicato la ferita come sapevo fare. L’avevo presa e posata sul letto e le ero stato vicino fino a quando anche Austin si precipitò in quella stanza.
Mi guardarono come fossi stato un mostro, ma lei era caduta ed io non l’avevo toccata.
Avevo sentito il tonfo, avevo placato la mia ira e avevo buttato giù la porta con un calcio.
Credevo che Kyla avrebbe preso al balzo quella situazione, sarebbe stato facile incolparmi, spingere mio padre ancora una volta contro di me, ma lei, quell’odiosa ragazzina, aveva deciso di fare la santarellina anche in quell’occasione.
Non fingeva, non poteva.
Pensare ad ogni cosa accaduta, mia aveva costretto a sfogare la mia rabbia sul muro. Vederla chiedere come stessi, mi aveva fatto infuriare il doppio.
Come poteva pensare a me in quel momento? Dopo aver riaperto gli occhi e dopo la ferita alla testa?
Le piacevo, lei provava qualcosa per me.
Quella consapevolezza mandò in crisi tutto me stesso. Avevo dovuto pensare a come reagire in breve tempo.
Come potevo farla soffrire? Come poteva capire davvero che non mi avrebbe mai avuto? Che io non avrei mai accettato di stare con lei o che io non avrei mai provato qualcosa per lei?
Non funzionavano le mie parole, non funzionava la mia indifferenza.
Doveva assaggiare quello che non avrebbe mai avuto per capire davvero cosa significasse stare male, cosa significasse avermi attorno. Vedermi, e non potermi più avere.
Parlavo, mi avvicinavo. L’avevo baciata.
Tutta la rabbia, tutti i pensieri, erano svaniti in quell’esatto momento. Non ne avevo comunque capito il perché ma non riuscivo a staccarmi. Le avevo permesso di toccarmi con quelle mani, che bruciavano. Le avevo stretto i fianchi come fosse stata mia, eppure non la volevo.
Le avevo sbottonato la camicia, anche se io non avrei mai voluto toccarla in nessun modo. Lei non era di certo la mia musa di sogni erotici.
Eppure continuavo a tenerla stretta. Eppure la mia bocca non ne voleva sapere di allontanarsi dalla sua.
Leyla era stata la mia salvezza, oppure non sarei riuscito a fermarmi.
Non doveva sapere quello che avevo provato, doveva solo continuare a pensare che lo avevo fatto solo per farle capire che quello che le avevo dato, non sarebbe mai stato su. Poi avevo visto il suo viso. Le sue labbra livide, il suo affanno, il suo cuore esploso, che martellava la mia testa, il suo seno coperto sotto la camicetta che si alzava e abbassava in modo irregolare.
I suoi occhi lucidi, la sua difficoltà a guardarmi.
Quell’espressione ce l’avevo avuta anche io, la sua reazione assomigliava davvero a quella che avevo avuto io la mia prima volta, con una ragazzina della mia scuola.
Lei non aveva mai baciato nessuno?
Non potevo saperlo con certezza, eppure lo sentivo, sentivo che era così.
«Jay, posso entrare?».
Austin mi liberò dal pensiero di quello che era appena successo. Lo avevo chiamato io, e lui era corso da me. A differenza delle altre volte però, non mi aveva chiesto nulla, si era diretto in quella stanza a vedere come stava Kyla.
«Oh, amico…pensavo te ne fossi andato. Kyla sta bene».
Lui mi guardò distrutto. «Mi dispiace se non ti ho chiesto nulla, ma era quella ragazza su un letto priva di sensi, tu stavi bene».
Sbuffai. «Ora ti sei messo d’accordo con mio padre?».
Scosse la testa. «Non capisci che stai peggiorando la situazione?».
Chiuse la porta.
«Non ti ha fatto nulla, quella ragazza non ha scelto nulla. È stata venduta dal padre a te, alla tua famiglia, solo per i vostri sporchi affari. Non sapeva neanche dove sarebbe andata a finire. Tu continui ad allontanarla e neanche provi a conoscerla. Tuo padre mi ha detto che sta pensando ad un’altra soluzione, e lo sta facendo perché Kyla glielo ha chiesto».
Presi fiato per non colpire anche lui, oltre che il muro. «Austin, neanche io ho chiesto nulla. L’ho solo trovata in casa mia. Se ti piace tanto, puoi conoscerla tu».
Non avevo capito quanto a lui interessasse Kyla fino a quel momento.
«Se tu non la vuoi, se tu non la sposerai, stai sicuro amico mio che io ci proverò».
Mi girai a guardarlo e qualcosa dentro di me si spezzò. L’avevo appena baciata, la stavo per toccare, le stavo per togliere tutto per farla mia. Non la volevo, ma lui sì.
«Prenditela Austin, toglimela dalle palle il più possibile. Sentirò gli Arabi personalmente per capire cosa diavolo vogliono, e se l’unico modo per avere una collaborazione con loro è quello di sposarla, ti giuro che mi sparerò un colpo in testa».
Sorrise per un secondo. «Non devi farlo, ma se mi stai dando il tuo permesso, appena si riprenderà del tutto, sarò felice di allontanarla da te».
Ancora una volta, ancora un morso al cuore.
Quando Austin lasciò la stanza, tutto quello che volevo fare era rivedere lei, era vedere come si sentisse, che cosa stesse pensando, ma sapevo anche che io non ero fatto per smancerie del genere, che sarebbero state comunque illusioni per lei. Lo scopo di quel bacio era solo farla stare male, se fossi andato da lei, se fosse successo di nuovo, tutto quello che stavo facendo sarebbe stato vano.
Avevo amato una volta, avevo amato davvero. Non avrei mai permesso al mio cuore che potesse succedere di nuovo.
