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CAPITOLO 4

KYLA

Bussai alla sua porta un po' troppo presto. Mi svegliavo sempre all’alba e avevo aspettato molto prima di decidermi.

Avevo tolto quell’anello la sera prima, rischiando così di rovinare del tutto quel vestito meraviglioso, ma non sopportavo l’idea che lui avesse toccato quella parte del mio corpo e non volevo avere nulla addosso che mi ricordasse di lui.

Avevo bevuto due bicchierini e la mia testa aveva deciso di non rispondermi più. Ricordavo ogni cosa, anche di come lui mi avesse posata sul letto e di come, guardandomi, mi aveva dato la buonanotte.

Ricordavo quella sua mano, pronta a tirare giù la zip e che poi si era fermata alla vista della mia schiena.

Quella notte piansi. Nessuno, tranne mio padre e la mia matrigna, avevano visto il mio corpo e quelle ferite.

Una volta svenni per il dolore, avevo solo 12 anni. La moglie di mio padre mi aveva lavata per terra, aveva tolto il sangue ma non si era degnata neanche di medicarmi. Imparai da sola a farlo, con le uniche cose che avevo in casa. Approfittavo di quando compravano medicinali per mio fratello, sempre cagionevole, ne rubavo qualcuno senza dare nell’occhio, quando tutti dormivano e così andavo avanti.

Non potevo sopportare l’idea che adesso lui avesse visto, che avesse toccato.

«Entra Will, sono sveglio».

Entrai anche se sapevo che stava aspettando qualcun altro. E ogni mio pensiero svanì alla sua vista.

Aveva una camicia sbottonata. Potevo vedere ogni suo muscolo del petto. I miei occhi non ci provarono neanche a guardarlo in viso piuttosto che altrove, rimasi ferma a fissarlo come se non avessi mai visto nulla del genere.

In effetti, io non avevo mai visto dal vivo un uomo mezzo nudo.

Lui si avvicinò a me per chiudere la porta, ma io rimasi immobile. Prima di tornare in me ci volle qualche secondo, che bastò a lui per farmi indietreggiare fino a farmi sbattere contro la porta.

«Ti sei ripresa ragazzina?».

Annuii.

«Guardami».

Avevo abbassato lo sguardo perché in quel momento, oltre all’imbarazzo, stavo provando qualcosa che fino ad allora non avevo conosciuto. Un sentimento nuovo che aveva preso tutto il mio corpo.

Le mie mani scottavano, la mia pelle bruciava, le mie orecchie ardevano, le gambe tremavano.

«Kyla, cosa ci fai qui?».

Gli mostrai l’anello, sperando che nel prenderlo mi lasciasse respirare.

«Ricordi qualcosa di ieri sera?».

«Tutto». Risposi con un filo di voce.

«Mi dispiace». Aggiunsi.

Il sorriso che si formò all’angolo della sua bocca mi fece quasi svenire, tanto che lui fu pronto a rialzarmi.

«Ti piace quello che vedi?».

«Per favore Jayden, non prenderti gioco di me». Sospirai. «Lasciami uscire».

Scosse la testa. «Ragazzina, non puoi venire qui dentro, non la mattina».

Cosa voleva dire esattamente?

«Pensavo, ecco io non credevo…».

Avvicinò il suo viso al mio abbassandosi quel poco da farmi sentire il suo odore proprio sotto il naso.

«Sei nervosa, ti faccio davvero questo effetto?».

Provai a toccarlo per allontanarlo ma lui prese il mio polso prima che io potessi raggiungere la sua spalla.

«Cazzo, scotti».

Si leccò il labbro inferiore senza mai togliere i suoi occhi da me. Li alzai anche io e dovetti mandare giù un bel po' di saliva.

Si scansò da me un attimo dopo. Mise l’anello al dito e chiuse la sua camicia dandomi le spalle.

«Ora puoi andare».

Non sapevo cosa diavolo avesse nel cervello, ma per un secondo, uno soltanto, avevo sperato che non mi lasciasse uscire da quella stanza.

Aprii la porta, scomparendo dalla sua vista.

Scesi per fare colazione e per prendere un po' d’aria.

Daniel stava leggendo il giornale e bevendo un caffè quando mi vide entrare affannata.

«Buongiorno Kyla, dormito bene?».

Annuii. «Si signor Daniel. Spero di non aver commesso errori ieri sera».

Scosse la testa. «Sei stata perfetta. Sicuramente mi chiederanno di te e sicuramente porteremo a termine il progetto, sempre che mio figlio…».

«Mi sposi». Finii io la sua frase.

«Sembri aver corso una maratona, sicura che sia tutto ok?».

«Sì». Dissi bevendo del caffè anche io. «Ho solo avuto un giramento».

Jayden fece il suo ingresso in quel momento, e, sottovoce, mi disse nell’orecchio: «Se tremi, anche mio padre si renderà conto che menti».

Daniel alzò gli occhi vero il figlio per assicurarsi che non mi stesse di nuovo offendendo o cose simili, poi riprese a leggere il giornale.

Aveva già intuito molto di me, Jayden. Sapeva più di molti cosa pensassi o provassi, aveva tenuto tutto a mente. Come faceva però a sapere che tremare per me voleva dire mentire?

Avevo tremato la sera prima, quando gli avevo detto che avevo preso un po' d’aria in giardino, quando Kate aveva deciso di portarmi fuori solo per ribadirmi che non avevo alcuna speranza con lui.

«Vi ho visti in sintonia ieri sera. Mi fa piacere che le cose si stiano sistemando».

Jayden sbuffò mangiando un cornetto. «Davvero credi che le cose stiano andando bene? Ieri sera non avrei mai potuto rischiare di fare una brutta figura, ho bisogno di mantenere amicizie, o quando te ne andrai dall’azienda sarà davvero dura».

Si comportava in un modo diverso quando parlava con il padre, sembrava volergli bene ma era così duro con lui che non riuscivo mai a capire se fosse veramente perché odiava il pensiero di sposarmi o perché era successo qualcosa di cui non potevo essere a conoscenza.

«Se non sposerai Kyla, dubito che lascerò a te l’azienda».

Jayden lanciò la tazza contro il muro, macchiandolo di nero. Si alzò e i suoi occhi divennero scuri, pieni di rabbia.

Poi, senza dire una parola, uscì fuori da quella stanza.

«Mi dispiace che si comporti così».

Non potevo continuare a vederlo soffrire al pensiero che fosse obbligato a sposare me per avere quello per cui lavorava da anni. «Potrei chiederti un favore, Daniel?».

Sembrava felice di avermi sentito pronunciare quelle parole. In fondo, non gli avevo chiesto mai nulla.

Feci la domanda dopo averlo visto annuire. «Se Jayden non vuole sposarmi e lo capisco». Feci un respiro profondo. «Perché non pensare ad un’altra soluzione per gli Arabi?».

Lo avevo incuriosito, lo notai dai suoi occhi.

«Diciamo che dopo ieri sera, gli Arabi verranno a conoscenza che io, Kyla Almasi, se vogliamo usare il cognome di mia madre, sposerò tuo figlio a breve». Alzai gli occhi per pensare meglio. «Diciamo che il matrimonio non avverrà. Mi hai detto che non mi lasceresti mai tornare da mio padre giusto?».

Lui annuì.

«Ecco, potremmo dire che anche se il matrimonio non ci sarà, io farò parte della tua famiglia». Alzai le mani a difesa delle mie parole. «Non sto dicendo che dovrò restare qui e approfittare della vostra ricchezza, non chiederei mai questo. Però potremmo ascoltare gli Arabi quando si faranno sentire e vedere esattamente cosa vogliono e se basterebbe altro piuttosto che un matrimonio».

Daniel sembrò pensare veramente alle mie parole. «Potrebbero chiederti di trasferirti da loro Kyla, ed era questo il motivo per cui volevo che ti sposassi. Saresti rimasta qui, al sicuro».

Annuii. «Sì ma tuo figlio continuerà ad odiarmi e continuerà ad odiare te, se lo obblighiamo a fare una cosa che evidentemente non è pronto a fare. Chiedere ad un ragazzo di sposare una donna che non ama solo per affari, vorrebbe dire togliergli ogni tipo di speranza per un futuro felice».

Lui sorrise. «Sei proprio una persona dal cuore d’oro nonostante tutto. Ci penserò ok?».

Poi se ne andò via, lasciandomi sola con il mio caffè e con quella macchia sul muro che non faceva altro che ricordarmi quanto volubile fosse quel Dio greco.

Aspettai il suo ritorno a casa per tutto il giorno, non sapendo neanche bene il perché. Lui mi odiava e qualsiasi cosa io stessi iniziando a provare, sapevo che mi avrebbe fatto del male.

Aveva detto che non avrebbe mai sposato una come me, ma d’altronde, una come me, non avrebbe mai avuto neanche l’occasione di conoscere uno come lui.

Lo avevo accettato, avevo accettato molto tempo prima che la mia vita non fosse uguale a tutte le ragazze che di solito osservavo di nascosto dal balcone quando pulivo gli stracci. Andavano a scuola, vestivano carine, ridevano con gli amici.

Non avrei più potuto tornare indietro, non avrei mai portato uno zaino sulla spalla contenta di andare a scuola o con l’ansia per l’interrogazione. La mia famiglia mi aveva tolto tutto, ogni tipo di felicità, solo perché era stata mia madre a partorirmi.

Eppure quella mattina nei suoi occhi ci avevo visto una speranza che qualcosa cambiasse. Che cambiasse lui, che iniziasse lui a sentire qualcosa per me.

Mi stavo illudendo…

Dopo il pranzo, sul letto, iniziai a pensare al fatto che illudermi per me era così facile. Non avevo mai avuto esperienze con gli uomini, non sapevo gestirli o capirli, non sapevo comportarmi, e in più, non sapevo mentire, non sapevo rendermi bella, non sapevo nulla della vita.

Non si trattava solo del fatto che fossi piccola di età. Prima di uscire da quella casa infernale, non sentivo il peso di essere piccola, non sentivo il peso di essere ignorante.

Eppure, da quando Daniel mi aveva accolta in casa sua, più mi guardavo intorno e più cominciavo a capire la gravità di quello che mi era stato fatto.

Dopo tutti quei pensieri, che mi avevano reso la giornata impossibile da vivere in maniera tranquilla, lo vidi rientrare dalla finestra della mia camera, che affacciava sul garage dove di solito parcheggiava l’auto che prendeva per andare a lavoro.

Daniel aveva avuto un pranzo con alcuni clienti, ma non era ancora tornato e lui aveva fatto più tardi del solito.

Mi feci coraggio e uscii dalla stanza. Entrò quando ormai io avevo sceso tutte le scale.

Non mi salutò neanche, si diresse in salotto ed io lo seguii.

«Cosa vuoi?». La sua durezza mi colpì, quando, con un bicchiere di whisky in mano, si girò verso di me.

Scossi la testa, le parole non riuscirono a lasciare la mia bocca.

«Vuoi vedermi di nuovo senza camicia per caso?».

Abbassai lo sguardo, perché sapevo che il fuoco sarebbe apparso in quel preciso istante, ma poi, con un respiro bello profondo, dimenticai per un secondo che il mio corpo lo desiderava.

«Ho chiesto a tuo padre di trovare un’altra soluzione per i suoi affari».

Si avvicinò a me, quel poco che bastò a me per farmi indietreggiare.

«Oh, e cosa ti ha detto?». Rise, bevendo ancora. «Non voglio il tuo aiuto, ragazzina. Posso benissimo decidere di non sposarti».

A sorridere fui io. «Ma perderesti tutto».

Lanciò il bicchiere contro il muro, spaventandomi. Poi, a passo svelto, mi raggiunse.

«Lavoro da sempre, tutto quello che vedi, me lo sono guadagnato anche io. Se pensi anche solo che permetterei a mio padre di mandare all’aria ogni mio sforzo, ti sbagli».

Mi spinse contro il muro. «Troverò ogni soluzione possibile affinché io non debba sposarti, accetterei di sposare la figlia dell’Arabo piuttosto che sposare te. Quindi non cantare vittoria, non farai mai parte della mia vita».

Annuii.

Ogni paura, ogni incertezza, ogni mio pensiero, svanirono in quel momento. Sentii il mio viso calmarsi, tornare alla normalità anche con la sua vicinanza. Improvvisamente mi sentii leggera, libera.

«Volevo solo aiutarti, ma evidentemente non serve».

Lo scansai e feci per andarmene, ma lui mi prese e mi posizionò proprio dov’ero.

«Cosa vuoi? Vuoi venire a letto con me? Ti piaccio? Vorresti essere amata da me?».

Scossi la testa.

«Potrebbe succedere sai? Potrei venire in camera tua e scoparti fino al mattino, farti sentire donna almeno per una notte. Se lo facessi, torneresti a casa?».

Lo guardai dritto negli occhi e provai di nuovo ad andarmene. Ma lui mi tenne stretta per i fianchi ed io, d’impeto, gli tirai uno schiaffo così forte che dovette allontanarsi per forza da me.

Corsi in camera.

Lui salì poco dopo, iniziò a bussare come fosse dannato ed io mi chiusi in bagno.

Una parola, una sua parola soltanto, aveva di nuovo riportato a galla ogni mio ricordo. Anche quello di quando scappai da mio padre, in preda alla follia, mentre mi tirava contro la sua cinta in cuoio dopo un ennesimo affare andato male. La sua rabbia era talmente forte che, quando la mia matrigna gli aveva detto che avevo preparato il bagno per Mik troppo caldo e che non avevo completato le pulizie delle stanze, lui era venuto dritto da me.

Furioso, con gli occhi pieni di sangue, mi aveva trascinata giù dal letto e aveva cominciato a colpirmi. Scappai in bagno, chiudendomi dentro, e lui alla fine era riuscito a buttare giù la porta, ma, dopo quello sforzo, mi lasciò in pace perché non aveva più le forze per lanciare la cinta.

Non mi spaventavano le parole di Jayden, mi spaventava solo la parola “casa”.

Lo sentivo bussare da troppo, ed ero convinta che anche lui avrebbe buttato giù la porta se non gli avessi aperto io, ma nel frattempo, guardandomi intorno, cominciai a capire di non respirare.

Ogni cosa girava, l’aria mancava.

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