L’ombra del passato e il richiamo del destino
Passato
Aela correva tra i salici, i piedi nudi affondavano nel fango morbido del bosco sacro. Aveva sette anni, le gambe troppo sottili per reggere il peso del bastone cerimoniale che le avevano affidato, ma si ostinava a stringerlo con tutte le forze.
— Di nuovo! — gridò la Maestra Ninfa. — Il movimento deve essere fluido, come l’acqua che attraversa le radici.
Aela ansimava. Le mani graffiate, le ginocchia sporche. Ogni giorno era un rito. Alzarsi all’alba, purificarsi nelle acque del fiume, memorizzare formule, recitare i Canti delle Fasi. Ma ciò che la logorava non erano le prove fisiche. Era la solitudine. Le altre apprendiste, più grandi o più docili, si muovevano come un unico flusso, indifferenti alla sua presenza. Lei era sempre “quella difficile”, “quella che si distrae”, “quella che fa troppe domande” — un'estranea anche tra i suoi simili, con un cuore che batteva a un ritmo diverso. Ricordava ancora quella notte: la notte in cui era stata scelta per iniziare l’addestramento come ninfa. Aveva pianto in silenzio sul giaciglio, stringendo tra le mani una foglia caduta dall’Ughun che aveva raccolto di nascosto.
Era una foglia d’argento, sottile e perfetta, con una nervatura che sembrava disegnata dalla luce stessa. “Non so se voglio essere una Ninfa. Ma se lo divento, voglio che sia per scelta.” Aveva ripetuto quella frase tra le lacrime, e da allora la foglia non l’aveva mai lasciata. L’aveva nascosta nel fodero del suo diario, tra le pagine bianche che nessuno osava leggere.
Un pomeriggio, durante l'addestramento nella Sala dei Venti, un'ampia stanza a cielo aperto dove le giovani Ninfe imparavano a danzare con l'aria, l'improvvisa comparsa di un'ombra proiettata sul suolo interruppe la lezione. Aela alzò lo sguardo, il cuore che le si strinse. Taurho. Era già un generale, imponente nella sua armatura scura, gli occhi penetranti come lame affilate. La Maestra Ninfa chinò il capo in segno di rispetto, ma Taurho la ignorò, i suoi passi risuonarono pesanti mentre si dirigeva dritto verso Aela.
Le sue compagne si allontanarono, lasciandola sola al centro della sala, un'isolata statua di terrore.
— Aela. — La sua voce era profonda, come il ruggito lontano di un predatore, e aveva un sapore di diritto acquisito. Si avvicinò, la sua mano si posò sul braccio nudo di lei, una presa ferma, possessiva. Non era una carezza, ma un sigillo. — Mia madre, Delai, tua signora ti ha destinata a me. Presto sarai mia, per legge e per desiderio.
Aela tentò di ritirare il braccio, un piccolo, inutile gesto di ribellione. Il contatto con la sua pelle le dava la nausea, una fredda morsa che le risaliva lungo la schiena. — Ti prego, Taurho. Sono qui per l'addestramento.
Un sorriso distorto increspò le labbra di lui, un'espressione di sordo divertimento. Il suo sguardo scese, indagando la sua figura con un'intensità che la fece sentire nuda, esposta. — E sarai un magnifico trofeo, Aela. La tua bellezza, la tua grazia… tutto ciò che sei, sarà per me.
Si chinò su di lei, l'odore forte della sua armatura, di metallo e potere, le invase le narici. I suoi occhi bruciavano di un desiderio che non ammetteva rifiuti, un fuoco inestinguibile che le prosciugava ogni forza. Aela sentì la sua disperazione crescere, il peso del destino che le schiacciava il petto. Il suo corpo si irrigidì, ogni muscolo teso a resistere, ma era inutile. La mano di Taurho le accarezzò lentamente il collo, poi le dita si intrecciarono tra i suoi capelli, tirandole il capo all'indietro. Non c'era delicatezza, solo un controllo assoluto. I suoi occhi, lucidi di un'avidità quasi famelica, le incatenarono lo sguardo.
— Non ti opporrai, Aela. Nessuno lo fa. E presto, anche la tua volontà sarà piegata alla mia. Mi appartieni. Lo sai. —
La sua voce era un sussurro rauco, un comando inequivocabile. La vicinanza, la minaccia latente, la soffocavano. Aela chiuse gli occhi, sentendo le lacrime premere dietro le palpebre. Non c'era scampo. Non ancora. Si sentì piccola, fragile, completamente sottomessa alla sua volontà schiacciante. Era un'accettazione amara, un preludio alla prigione che le si stava chiudendo attorno.
Presente
Aela si risvegliò di soprassalto, il petto che si sollevava ansimante. Era successo di nuovo. L’ennesimo incubo.
Come ogni volta, sognava una struttura abbandonata, immersa nella nebbia. Un uomo oscuro dalle ali nere si avvicinava alla dimora in cui lei era nascosta. Il suo volto era segnato da cicatrici profonde, e ad ogni passo la terra sotto di lui prendeva fuoco, lasciando solo cenere dietro di sé. L’oscurità lo seguiva come un’ombra viva.
Aela cercava di respingerlo con i suoi poteri, ma non accadeva nulla. Era come se la sua magia si dissolvesse nel vento. E il sogno finiva sempre nello stesso modo: la morte.
Quando il cuore riprese a battere con regolarità, si portò le mani al volto. Bevve un sorso d’acqua, cercando di calmarsi, poi si coricò di nuovo, sperando — inutilmente — di non tornarci.
Il sonno la riprese subito, e con esso i sogni.
Ma questa volta era diverso.
Non c’era più la casa. Si trovava in una terra arida e spoglia, battuta da un vento secco. Il cielo era grigio, pesante. Un albero rinsecchito, alto e contorto, dominava la vallata. Accanto, un piccolo fiume si trascinava stanco, come se potesse evaporare da un momento all’altro.
Dei rumori alle sue spalle la fecero voltare di scatto. Uomini in armatura stavano inseguendo un ragazzo dai capelli scuri con riflessi dorati. Aveva gli occhi ambrati, brillanti di furia e paura.
— Spostati! — le gridò lui, ma Aela rimase immobile, pietrificata. Quegli uomini sembravano Derh, ma qualcosa non tornava. Non erano solo loro. Alcuni indossavano simboli Tuac: circoli dorati intrecciati con tre punte rivolte verso il cielo, scolpiti nel metallo lucente delle loro corazze.
Aela li riconobbe subito. Erano i Segni della Triplice Luce: la rappresentazione sacra delle tre fasi della luce nel giorno Tuac — Aurora, Zenith e Tramonto — e simboleggiavano l’ordine gerarchico all’interno del popolo. Ogni punta indicava un giuramento: custodire la conoscenza, proteggere il flusso, servire l’equilibrio.
Inoltre, uno degli uomini portava sulla spalla una gemma solare incastonata in un semicerchio aperto verso l’alto: segno raro, riservato ai Custodi di Primo Sole, guerrieri scelti dalla casta delle Ninfe per missioni oltre i confini sacri.
Ma cosa facevano lì?
Come potevano Tuac — suoi simili — partecipare alla caccia di quel ragazzo?
Il ragazzo le afferrò la mano con forza.
— Vieni con me. —
Aela fu trascinata nella corsa.
— Di dove sei? Cosa fa una Tuac nelle Terre Grigie? — chiese lui, mentre correvano tra le rocce.
“Terre Grigie?”, pensò. Dunque era lì davvero?
— Perché ti stanno inseguendo? — gli chiese ansimando.
— Dovresti saperlo. Alcuni di quelli che ci danno la caccia... sono della tua razza. —
Il tono della sua voce era aspro, amareggiato. Le parole la ferirono, ma non riusciva a lasciargli la mano. La sua pelle calda le trasmetteva un senso inspiegabile di protezione.
— Qui dietro. — disse lui, spingendola all’interno di una stretta insenatura tra le rocce.
Rimasero immobili. Il fiato spezzato, il cuore in gola. La tensione calava lentamente.
Aela lo osservò da vicino. Il suo volto era giovane, ma già segnato da dolore e stanchezza. Gli occhi ambrati sembravano contenere intere stagioni. Il corpo forte, teso, pronto a combattere.
Il suo volto le arrossò le guance. Sentì il cuore accelerare.
“Cosa mi succede?”
Non era possibile. Non doveva. Aveva giurato lealtà alle Ninfe, e come ogni iniziata, doveva rimanere casta fino al giorno in cui la Ninfa Suprema non le avesse destinato un compagno per generare una nuova custode.
Eppure, quel tocco… era diverso.
“Ma mia madre non è mai stata una ninfa...” pensò all’improvviso.
“Come posso allora esserlo diventata io? Chi mi ha scelto, e perché?”
La domanda rimbalzava nella mente, senza risposta.
— Andiamo! — disse il ragazzo, uscendo dall’insenatura. Le strinse di nuovo la mano, trascinandola con sé.
Aela rimase immobile per un attimo, confusa. Troppe domande. Troppe verità sospese.
Perché sognava quella terra? Perché quelle visioni le lasciavano segni veri sulla pelle, ogni mattina? A chi poteva rivolgersi, se non si fidava più di nessuno?
All’improvviso, una luce intensa cominciò ad avvolgere ogni cosa. Il sogno stava svanendo.
— No! Dove vai? — gridò il ragazzo, cercando di afferrarla. Ma era troppo tardi.
Aela si svegliò di scatto. Guardò la mano: tre piccoli segni sul polso, cilindrici, impressi sulla pelle chiara. Il bracciale del ragazzo.
— Tutto questo è... reale? — sussurrò.
Il cielo si tingeva dei primi raggi dell’alba. Scostò le lenzuola con fatica, si alzò e, con passo incerto, andò davanti allo specchio. Iniziò a spazzolare la lunga chioma dorata, ma qualcosa cambiò.
Nello specchio, una luce si fece strada. Una forma quasi umana emerse dal bagliore. Aela trasalì, facendo cadere a terra la spazzola e alcuni oggetti.
— Non temere, Aela. Sono io. La luce del Lago.
La voce era calma, profonda, impossibile da ignorare.
Aela, ancora scossa, capì che stava avendo una visione. Ma non era un sogno.
— Non ho le risposte che cerchi. Ma ho un comando per te. Devi raggiungere le Terre Grigie. Lì troverai il ragazzo dei tuoi sogni. Aiutalo a dominare il potere che cresce dentro di lui. Guidalo. E forse, in questo viaggio… troverai le risposte che cerchi. —
La luce svanì nel nulla.
Aela cadde in ginocchio.
— E ora... cosa sarà di me? Come tornerò indietro, se varcherò quei confini proibiti? Come potrò affrontare le Ninfe, se disobbedisco? —
Non era addestrata. I suoi poteri non erano ancora sviluppati. Eppure sentiva, nel profondo, che quel viaggio era inevitabile.
Qualcuno bussò alla porta. — Aela, è ora. Andiamo. —
— Arrivo... — rispose con voce incerta.
Si alzò, infilò l’abito giallo delle novizie e nascose le ali sotto il mantello. Non si era ancora abituata alla loro presenza, ma almeno il prurito era scomparso. Nel corridoio esterno, che affacciava sul giardino, altre ninfe si dirigevano verso la sala centrale. Aela camminava insieme a loro, ma i pensieri la trascinavano altrove. Cosa devo fare? Aveva dei dubbi. Ma una sola certezza: l’Ughun non sbagliava mai.
E se davvero la luce le aveva parlato, allora quella non era la vita che le era destinata. Forse, sì… doveva partire. Provò a distrarsi. Si concentrò sulla colazione, sul sapore dolce del pane ai fiori. Ma le parole della visione tornavano, ostinate: Come devo comportarmi? Come posso lasciare tutto: la mia casa, gli amici, la mia famiglia?
Forse sono solo sogni… solo fantasie, pensò, cercando di zittire il richiamo interiore.
— Andiamo. —
La voce della sua migliore amica la riportò alla realtà. Aela le sorrise, si alzò e si incamminò verso la zona di allenamento.
Ma dentro di sé, sapeva: quel cammino stava per finire. Un altro stava per cominciare.
