L’iniziazione è l’ombra di Taurho
Terre Tuac – Venti anni dopo
Il Solstizio di Primavera era il giorno più sacro per il popolo dei Tuac, custodi della luce e delle acque. In quel giorno, la magia si riversava nei fiumi, nei laghi, nell’aria, potenziata dalla benevolenza dell’Ughun, il Salice della Vita, colui che vegliava sugli equilibri tra i mondi visibili e invisibili.
Per Aela, però, quel giorno non era solo una celebrazione. Era la fine di una vita e l’inizio di un’altra. Era la sua Iniziazione: sarebbe rinata come Ninfa del Miyar, consacrata alla protezione delle acque sacre e dei segreti celati sotto il mondo. Ma il suo cuore non cantava. Nella penombra della sua stanza cerimoniale, Aela cercava di calmare il respiro, mentre allacciava il sudack, l’abito rituale di lino grezzo, bianco come la purezza, ma per lei rigido come una prigione. I ghirigori dorati sembravano bruciare sulla sua pelle, e il laccio che stringeva la vita le dava la sensazione di soffocare l’anima.
Era stata scelta a cinque anni. “Una benedizione”, dicevano. Da quel giorno, la sua vita non era più stata sua, ma un sentiero tracciato, fatto di studi solitari sui glifi acquatici, di lunghe meditazioni sotto la luna e di rituali silenziosi che le scolpivano l'anima. Ogni passo, ogni respiro, era stato un'anticipazione di questo momento, un'inesorabile marcia verso un destino predefinito, svuotato di ogni sua personale volontà. Ma nessuno le aveva mai chiesto se voleva essere benedetta.
— Andiamo. È il momento. —
Sua madre spalancò la porta, radiosa. Negli occhi, fierezza e orgoglio. Negli occhi di Aela, invece, c’era il mare in tempesta.
All’esterno, suo padre la accolse con un abbraccio tremante.
— Mia figlia… una ninfa. Il giorno che ho sempre sognato. —
Lei forzò un sorriso, ma dentro sentiva solo il peso di ciò che stava perdendo.
Non avrebbe più rivisto la casa, il suo letto, il profumo delle spezie, i pomeriggi a leggere tra i salici.
Non avrebbe più avuto una vita.
Qualche passo più in là, oltre la soglia, un’ombra alta si stagliava contro la luce tremolante delle torce: Taurho. Il suo sguardo, freddo e tagliente come ghiaccio, le percorse la figura dal capo ai piedi, indugiando sull’abito candido. Non c’era affetto nei suoi occhi, solo un calcolo preciso, una possessività che le stringeva il fiato. Era il generale dell'esercito Tuac, e figlio della Ninfa Suprema, Delai. La legge le imponeva di sposarlo, e lui, forte, spietato, era convinto che Aela, con la sua bellezza e il suo potere nascente, fosse nata per essere sua, un trofeo da esibire. Il suo sorriso era un gesto vuoto, una maschera di convenienza. Ma nei suoi occhi, Aela leggeva una promessa silenziosa e crudele: Sarai mia. Completamente. Ogni tuo respiro, ogni tuo potere, mi apparterrà. La sua sola presenza era una morsa, un'anticipazione della prigione che l'attendeva al di là del rito.
Il villaggio la scortò in silenzio fino al Lago del Miyar dove l’Ughun, con i suoi rami pendenti e carichi di fiori, vegliava sulla superficie increspata.
Le Ninfe l’attendevano. Donne eteree, dagli occhi antichi e le ali argentee, si disposero a cerchio.
Al centro, la Ninfa Suprema, avvolta in un mantello fluido come nebbia dorata, si avvicinò ad Aela e le posò un bacio sulla fronte.
— Oggi, Aela, entrerai nelle acque del Miyar. E lì, sotto le radici dell’Ughun, morirai come figlia e rinascerai come custode. Se l’albero ti riterrà degna, ti donerà le ali. Altrimenti… tornerai alla Terra. —
Il popolo era in silenzio. Nessuno poteva intervenire. Il rito era sacro, antico quanto le prime piogge.
Due ninfe presero Aela per mano e la condussero su una piccola imbarcazione cerimoniale, scolpita a forma di foglia d’alloro. Scivolarono verso il centro del lago, là dove l’acqua era più scura, più profonda… e più sincera.
La barca si fermò. Una barriera d’energia si alzò attorno a loro: nessuno sarebbe potuto intervenire ora.
Aela tremava. Le lacrime le rigavano il volto.
“Non voglio morire.” pensò.
Poi, si immerse.
L’acqua la avvolse come un grembo, e immediatamente sentì il potere delle ninfe trascinarla giù. Il suo sudack fluttuava come petali bianchi. L’aria nei polmoni diminuiva. Il panico la invase.
Aprì gli occhi. Vide la luce della luna farsi lontana. Il cuore rallentò. Il buio la circondò.
E lì, tra le radici dell’Ughun, accadde qualcosa.
Una luce dorata la circondò. Il tempo si fermò. E da quella luce, una voce la raggiunse. Non era voce d’uomo, né di donna. Era un’eco dell’essenza stessa della Vita.
— Vivi, Aela. Non sei destinata a servire, ma a guidare.
Al di là delle Terre di Luce, oltre il confine delle ombre, c’è un essere che porta entrambi i mondi nel sangue.
È un Ghail. Un Ibrido. E ti attende. Le sue ali saranno fragili.
Ma le tue... lo solleveranno. —
Poi tutto svanì.
Quando riaprì gli occhi, Aela era sospesa tra le radici del Salice. Una corrente gentile la avvolgeva. Sentiva il calore di un’antica forza stringerla come un abbraccio materno.
La luce la sollevò verso la superficie. Emersero prima le sue mani, poi il volto, poi le spalle…
e lì, proprio lì, due ali bianche sbocciarono: delicate, vive, luminose.
Le ninfe l’accolsero a braccia aperte. Il villaggio esultò.
Ma Aela non sorrideva.
Ciò che l’Ughun — o forse la Vita stessa — le aveva sussurrato andava oltre ogni comprensione.
Un Ibrido, un Ghail… nato da entrambi i mondi? E lei avrebbe dovuto guidarlo?
Cosa doveva risvegliarsi, in lui? Quali pericoli, quali ombre?
Aela non aveva risposte.
Solo un nuovo, profondo senso di attesa.
