
Riepilogo
Per Kael, ogni respiro è un ricordo di Aela, un'eco di un amore che si rifiuta di morire, anche se il suo corpo è stato strappato alla libertà. Kael non è che un guscio, un ibrido la cui esistenza è stata spezzata e rimodellata dalla brutalità di Myons e Delai, i tiranni che ambiscono al dominio sui popoli Tuac e Derh. L'addestramento è implacabile, ogni colpo un tentativo di cancellare la sua identità e la memoria più preziosa: quella di Aela, il suo amore perduto. Myons e Delai lo vogliono trasformare in un'arma senz'anima, un burattino obbediente, e le torture fisiche e psicologiche, culminate in castighi umilianti, mirano a estirpare ogni scintilla di resistenza. Ma più lo spingono al limite, più Kael si aggrappa ai frammenti di quel passato felice, ai sorrisi e ai tocchi proibiti di Aela, l'unica cosa che lo tiene in vita. Mentre Myons e Delai ordiscono un piano per scatenare il caos e stringere un patto con la sinistra entità Nehzrul, la vera battaglia di Kael si svolge dentro di sé: resistere alla sottomissione, proteggere il ricordo di Aela e trovare un barlume di speranza in un mondo che lo vuole piegato. Costretto a celare la sua indomita volontà, Kael deve camminare su un filo sottile tra l'apparente obbedienza e la pericolosa ricerca di una via d'uscita. In un mondo dove la fiducia è una moneta rara e il tradimento si annida nell'ombra, Kael scoprirà che il vero potere non risiede nella forza bruta, ma nell'incrollabile amore e nella tenace fiamma di chi si rifiuta di essere spezzato. Riuscirà Kael a decifrare l'antica eredità che scorre nelle sue vene e a spezzare le catene che lo legano, non solo per se stesso, ma per l'amore che porta nel cuore, prima che il suo popolo e la sua stessa anima siano perduti per sempre? Il tempo stringe, la luna nuova si avvicina, e con essa, la battaglia per la volontà del regno. .
Luce e Ombra: Il Destino di Kalahari e Ahlien.
Kalahari passeggiava, come ogni notte, nel bosco, sotto un cielo trapunto di stelle. Le sue mani sfioravano ramoscelli e arbusti, mentre i piedi calpestavano un terreno morbido, ricoperto da un soffice manto muschiato. In quella valle tutto era magico, ma quel luogo lo era ancora di più. Al centro sorgeva il primo albero dell’intera regione: il salice Ughun. Le sue radici affondavano così in profondità da lambire persino le acque del lago che, placido, sostava ai suoi piedi.
Fu lì che, cento anni prima, Kalahari aveva incontrato per la prima volta Ahlien, la sua amata. Lui, figlio dei Derh, popolo della notte. Lei, una Tuac, figlia del giorno. Un amore proibito. Ma sotto la protezione dell’Ughun, nessuna legge poteva raggiungerli.
Ogni notte, da un secolo, i due fuggivano dalle rispettive dimore per incontrarsi in quel rifugio segreto, dove il tempo sembrava piegarsi alla volontà dell’albero. Nessun Derh, nessun Tuac poteva accedervi senza il permesso dell’Ughun.
Quella notte, però, l’aria era diversa. Più densa. Più inquieta.
I tatuaggi che decoravano addome, schiena e braccia di Kalahari si accesero di un tenue azzurro nel momento in cui varcò il perimetro del salice. Poco dopo, un fruscio d’ali annunciò l’arrivo di Ahlien: le sue ali argentee, splendenti come vetro lunare, riflettevano la luce delle stelle.
Kalahari sorrise, ma il volto gli si rabbuiò quando vide lo sguardo di lei: qualcosa nei suoi occhi era cambiato. Qualcosa di profondo.
— Kalahari… — sussurrò Ahlien. — Aspetto un figlio. È tuo.
Il silenzio che seguì fu carico di stupore e terrore. Nessuno dei due parlò subito. Ma i loro sguardi dicevano tutto: meraviglia, paura, istinto di protezione.
— Un figlio… un ibrido. — mormorò lui.
Lei annuì. — La sua nascita infrangerà l’equilibrio. Ha in sé il potere del giorno e della notte. Le leggi… non lo permetteranno mai.
Kalahari si portò una mano al volto, lottando contro i pensieri. Poi, con uno scatto deciso:
— Fuggiamo. Stanotte stessa. Prima che qualcuno scopra la verità. Troveremo rifugio nelle Terre Grigie.
Ahlien esitò. — Ma lì saremo esiliati. Soli… Nostro figlio crescerà senza popolo, senza nome…
— Ma con amore. E al sicuro. — rispose Kalahari, stringendole le mani. — Egli è ciò che i nostri stregoni chiamano "ibrido": un’unione impossibile. Una minaccia per l’equilibrio. Ma per noi… è il frutto del nostro amore.
All’improvviso, Ahlien trasalì. Il vento era cambiato. Non era più naturale.
Kalahari si voltò di scatto. Le fronde vibrarono. Foglie caddero senza brezza. Un rumore secco. Un ramo spezzato.
— Non siamo più soli. — sussurrò Ahlien, portando la mano all’elsa della spada nascosta sotto il suo abito candido.
— Vi osservavamo da tempo. — disse una voce profonda, emergendo dalle tenebre.
Dieci ricognitori Tuac apparvero tra le ombre, armati e pronti. Le loro armature riflettevano una luce solare accumulata.
— Ahlien, hai disonorato il tuo sangue. Hai tradito il giorno. Sei condannata a morte.
Subito dopo, dall’oscurità opposta, emersero i guerrieri Derh. Le loro lame nere come ossidiana. Anche loro li avevano seguiti.
Kalahari impallidì.
— E tu, Kalahari, figlio mio. Hai infranto il giuramento del sangue. — parlò una figura anziana, metà volto ustionato, un occhio bianco e privo di vita. —Da oggi non ho più un figlio. Morrai da traditore insieme a lei e al bambino che è nel suo grembo.
— Padre… non potete! — gridò Kalahari. — Noi ci amiamo! Non è una guerra… è amore!
Un sussurro percorse i presenti. Poi, una voce femminile. Una donna Tuac, fiera e nobile, con lunghi capelli intrecciati in stile cerimoniale. Il suo abito sfiorava l’erba e si bagnava nell’acqua.
— Mio fratello Begahr ha ragione. Le leggi dell’Ughun non sono punizione, ma protezione. Senza di esse, l’ibrido potrebbe distruggere l’equilibrio tra giorno e notte. Non possiamo permetterlo.
— È solo un neonato! — urlò Ahlien. — Non è un’arma!
— Ma lo diventerà. O sarà temuto. Braccato. Vivrà una vita di fuga e sangue.
Il silenzio calò sulla radura. Solo il fruscio delle foglie osava rompere la quiete.
Kalahari strinse Ahlien in un abbraccio forte. Inspirò il profumo dolce dei suoi capelli, come fiori di ciliegio. Poi, con infinita dolcezza, la spinse via.
— Fuggi. Vai. Per lui.
— No! — mormorò lei. Ma lui già sguainava la spada, voltandosi verso i nemici.
Le ali bianche di Ahlien si dispiegarono con un battito possente. Con le lacrime agli occhi, si sollevò in volo, lasciando il cuore a terra.
Per un istante, chiuse gli occhi, cercando di imprimere nella memoria la sensazione del suo corpo contro il suo, il battito rapido del suo cuore. Era il loro addio. L'aria stessa sembrava farsi densa di parole non dette, di promesse infrante, di tutti i cento anni del loro amore sigillati in quell'ultimo, disperato contatto.
I suoi occhi, lucidi di lacrime, incontrarono i suoi per un'ultima, fulminea comprensione. Un'intera vita, una promessa, un futuro negato, tutto concentrato in quello sguardo spezzato.
Kalahari si lanciò contro i nemici, mentre l’Ughun, muto e immobile, osservava. Ogni passo tra l’erba bagnata era un addio. I Derh lo circondarono per primi. Silenziosi. Gli occhi dicevano tutto: traditore. Vergogna della notte.
— Fermi. — ordinò il Begahr, alzando una mano. — È mio diritto finirla con lui.
Kalahari strinse l’elsa. Sapeva che non avrebbe resistito a lungo. Ma gli bastava poco. Solo il tempo necessario. Per lei. Per il figlio.
Il primo colpo arrivò come un fulmine. Il Begahr era vecchio, ma la sua spada parlava ancora la lingua della guerra. Kalahari parò, il braccio vibrò. Scivolò sotto un secondo colpo, ruotò, colpì un Tuac troppo vicino. Il sangue spruzzò sull’erba sacra.
"Perdonami, Ughun," pensò. "Perdonami, Madre. Ho portato la guerra nel tuo giardino."
Un altro assalto. Tre lame. Ne parò due. La terza lo ferì al fianco. Il dolore era freddo, silenzioso, come una verità taciuta. Ma continuò. Combatté come chi sa che non vedrà l’alba. Come chi sceglie di morire in piedi per qualcosa di più grande.
Il vento urlava tra i rami, come a salutarlo.
"Non ho paura della morte," pensava, "ho paura che lei venga catturata. Ho paura che nostro figlio non veda il mondo con occhi puri."
Cadde in ginocchio. Una lancia Tuac gli aveva trapassato la coscia. Il sangue scorreva impaziente. Ma si rialzò. Ancora una volta.
Ogni gesto era più lento. Ogni respiro più corto. Il cielo sembrava chinarsi sull’Ughun. Le stelle tremavano.
Il Begahr si avvicinò. Occhi vuoti. Nessuna pietà.
— È finita, figlio mio.
Kalahari sorrise, sporco di sangue e terra, ma con la luce negli occhi.
— No. Lei è libera. Questo basta.
Un colpo. Un taglio. Silenzio.
Kalahari cadde ai piedi dell’albero sacro. Tra le sue radici. Come un seme che torna alla terra.
L’ultimo pensiero fu una carezza: il volto di Ahlien, il sorriso mai visto del figlio, il profumo di ciliegio nei capelli.
Poi, solo luce.
E silenzio.
L’eco della battaglia era ormai un sussurro tra le fronde. Ahlien, nascosta oltre le colline d’ombra, planò tra gli alberi, tremante. Il cuore pulsava come tamburo di guerra nel petto. Sotto la luce incerta delle stelle, le sue ali traslucide battevano l’aria con sforzo crescente: il dolore del distacco era più pesante dell’armatura.
Raggiunse la sponda nord del lago, dove l’acqua rifletteva ancora l’immagine dell’Ughun, immobile testimone di quanto accaduto. Si inginocchiò sulla riva, le mani nel fango, e pianse in silenzio.
Poi si alzò. Doveva andare. Doveva vivere per il figlio. Un nome le ardeva dentro da sempre, come se lo stesso Ughun l’avesse sussurrato tra i sogni.
— Kael. — mormorò.
Quel nome sarebbe stato la loro eredità. Non solo un ibrido. Ma un ponte. Un simbolo.
Avvolta nel suo mantello di seta lunare, Ahlien svanì tra i boschi, diretta verso le Terre Grigie. Là dove nessun Tuac o Derh avrebbe osato seguirla. Là dove sarebbe iniziata un’altra storia.
