6 - Breve ritorno al presente
Dopo che Isabel e Claire si sono alzate, rimango per qualche minuto al tavolo, cercando di raccogliere i miei pensieri. Non riesco a smettere di ripensare a ogni battuta tagliente, a ogni sguardo rapido che Isabel mi ha lanciato. Mi sento come un uomo che cerca di scalare una montagna coperta di ghiaccio, sapendo benissimo che ogni passo potrebbe farlo scivolare. Ma c'è qualcosa di inebriante in tutto questo. Isabel è una sfida, e io non mi sono mai tirato indietro di fronte a una sfida.
Decido di ordinare un altro bicchiere di vino e rimanere ancora un po'. Non voglio che sembri che io le stia inseguendo – anche se, in fondo, è proprio quello che sto facendo.
Mentre sorseggio il vino, il ristorante si svuota lentamente. Qualcuno della troupe mi saluta da lontano, ma non presto loro molta attenzione. Il mio pensiero è fisso su Isabel e su quella sua aura impenetrabile. Ho conosciuto molte donne nella mia vita, ma nessuna come lei. È come un libro sigillato, e ogni volta che provo ad aprirlo, mi ritrovo davanti a una pagina che non posso leggere.
Quando finalmente decido di andarmene, l'aria fresca della sera mi accoglie come una carezza. Il silenzio è rotto solo dal suono dei miei passi sul selciato. Mi dirigo verso l'ascensore, pensando che la giornata sia finita, ma il destino sembra avere altri piani per me.
Le porte dell'ascensore si aprono e lì, davanti a me, c'è Isabel. È sola, appoggiata alla parete dell'ascensore, con lo sguardo fisso sul cellulare. Alza gli occhi e mi vede. Per un attimo, il suo volto non esprime nulla, poi torna a guardare il telefono.
«Che coincidenza,» dico, entrando nell'ascensore e premendo il pulsante del mio piano.
«Più che una coincidenza, sembra una persecuzione,» risponde lei, senza alzare lo sguardo.
Sorrido. «Se fosse davvero una persecuzione, saresti già nelle mie braccia.»
A quel punto, i suoi occhi si sollevano dal telefono, e c'è una scintilla pericolosa nel suo sguardo. «Ti consiglio di smetterla con questi giochetti, Harrison. Non funzionano con me.»
Mi appoggio alla parete, incrociando le braccia. «Chi ha detto che sto giocando?»
L'ascensore si ferma improvvisamente, con un leggero scossone. Le luci tremolano, e per un attimo penso che si sia bloccato. Ma poi le porte si aprono, a quanto pare, sul nostro piano, e Isabel esce senza dire una parola.
Io la seguo, mantenendo una certa distanza. Non so esattamente perché lo faccio. Forse perché voglio un'ultima parola, o forse perché non voglio che questa sia l'ultima immagine che ho di lei per la notte.
Quando arriva davanti alla sua porta, si ferma e si gira verso di me. «È qui che finisce la tua piccola missione di stalking?»
Rido sottovoce, ma non rispondo subito. Invece, mi avvicino lentamente, fermandomi a pochi passi da lei. «Non so, dipende... Vuoi invitarmi a entrare?» domando con fare seducente.
«Oh mio Dio... Così prevedibile...» dice con serio disgusto.
«Non sto cercando di perseguitarti, Isabel. Sto cercando di conoscerti.»
«Conoscermi?» ripete, e c'è una nota di incredulità nella sua voce. «Tu non vuoi conoscermi, rockstar. Vuoi solo aggiungermi alla tua collezione.»
Le sue parole mi colpiscono più di quanto vorrei ammettere. «E se ti sbagliassi?»
Lei sorride, ma è un sorriso triste, quasi malinconico. «Non mi sbaglio mai su queste cose.»
Prima che io possa rispondere, apre la porta e sparisce all'interno della stanza, lasciandomi lì nel corridoio con le mie domande senza risposta.
Rimango immobile per qualche istante, fissando la porta chiusa, poi mi dirigo verso la mia stanza. C'è qualcosa in Isabel che non riesco a decifrare, qualcosa che mi spinge a voler rompere quella corazza che si è costruita attorno. Ma una parte di me sa che, per farlo, dovrò prima affrontare le mie stesse insicurezze.
Mentre mi stendo sul letto, il volto di Isabel è tutto ciò che vedo. Il suo sguardo, il tono tagliente della sua voce, il modo in cui riesce a mettermi in difficoltà senza il minimo sforzo. È come se fosse entrata nella mia testa e avesse piantato radici lì.
E so già che questa non sarà l'ultima volta che proverò a capirla.
Un suono insistente, distante ma inarrestabile, mi trascina fuori dai miei pensieri e dai miei ricordi. All’inizio è solo un ronzio confuso, un rumore che non riesco a decifrare. Poi realizzo: qualcuno mi sta chiamando.
Apro gli occhi e vedo il dottore in piedi accanto a me. Ha un’espressione seria, quasi funerea. La stanza d’ospedale sembra improvvisamente più fredda, più vuota. Il bianco delle pareti mi abbaglia, contrastando con l’oscurità dei miei pensieri.
«Signor Harrison,» dice il medico, e il tono della sua voce mi fa rabbrividire. È troppo calmo, troppo controllato.
Cerco di sedermi, ma il peso sul mio petto è insopportabile. Il suo sguardo si abbassa per un momento, come se volesse evitare il mio, e poi torna a fissarmi.
«Mi dispiace,» continua, e quelle due parole mi colpiscono come un pugno nello stomaco. «Abbiamo fatto tutto il possibile, ma...»
Non finisce la frase. Non ha bisogno di farlo. So già cosa sta per dire.
«No,» sussurro, scuotendo la testa. «No, non può essere...»
Il dottore mi guarda con compassione, ma non offre alcuna rassicurazione. «Sua moglie... è stabile, ma il bambino... mi dispiace davvero.»
Il bambino. Le parole rimbombano nella mia testa, ripetendosi in un loop infinito. Non riesco a respirare. Non riesco a pensare.
Tutto ciò che riesco a fare è fissare il vuoto davanti a me, cercando di dare un senso a ciò che ho appena sentito. Ma è impossibile. Non può essere vero.
«Voglio vederla,» dico, la voce rotta. «Devo vedere Isabel.»
Il medico annuisce e mi fa cenno di seguirlo. Mi alzo, le gambe tremanti sotto il peso dell’emozione. Ogni passo lungo quel corridoio sembra un’eternità. I ricordi si sovrappongono alla realtà: Isabel che mi guarda con quel suo sorriso sarcastico, il suo sguardo che mi sfida, il suo modo unico di farmi sentire vivo.
Quando finalmente raggiungiamo la stanza, il cuore mi batte così forte che temo possa esplodere. Il dottore apre la porta e mi fa cenno di entrare.
Isabel è lì, sdraiata sul letto, pallida come un lenzuolo. I suoi occhi sono chiusi, il respiro lento e regolare. Sembra fragile, così diversa dalla donna forte e tagliente che conosco.
Mi avvicino al letto e mi inginocchio accanto a lei, prendendole una mano. È fredda al tatto, ma almeno è viva.
«Isabel,» mormoro, la voce quasi un sussurro. «Sono qui.»
I suoi occhi si aprono lentamente, e per un momento sembrano vuoti, persi in un dolore che conosco troppo bene. Poi mi vede, e una lacrima scivola silenziosa lungo il suo viso.
«Daniel,» dice, la voce spezzata. «Il nostro bambino... è colpa mia?»
«No,»rispondo subito, con più forza di quanto pensassi di avere. «Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno.»
Ma le mie parole sembrano scivolare su di lei, incapaci di raggiungerla. Rimaniamo lì, in silenzio, mentre il peso di ciò che abbiamo perso si abbatte su di noi.
Non so quanto tempo passi. Potrebbero essere minuti o ore. Tutto ciò che so è che non lascerò mai più la sua mano.
«Ci riproveremo,» le dico infine, cercando di convincere me stesso tanto quanto lei. «Troveremo un modo. Supereremo anche questo, insieme.»
Isabel non risponde, ma il suo sguardo si ammorbidisce leggermente. E in quel momento, anche se il dolore è insopportabile, so che non permetterò mai che questo ci distrugga.
Un silenzio grave avvolge la stanza, interrotto solo dal suono regolare del macchinario accanto al letto. Isabel continua a fissare il soffitto, persa in un luogo che non riesco a raggiungere. La sua mano nella mia è immobile, fragile, come se potesse spezzarsi da un momento all’altro.
Il peso di ciò che abbiamo appena perso grava su di noi come una cappa soffocante. Vorrei poterle dire qualcosa che cancelli tutto questo dolore, ma non ci sono parole giuste. Non questa volta.
«Non posso perderti,» mormoro, senza riuscire a trattenere la vulnerabilità nella mia voce. «Non dopo tutto quello che abbiamo passato.»
I suoi occhi si muovono lentamente verso di me, e finalmente incrociano i miei. Sono pieni di lacrime trattenute, ma dietro quella cortina di dolore c’è ancora lei, la donna forte e determinata che mi ha sempre sfidato.
«Non mi perderai, Daniel,» dice piano, anche se la sua voce tradisce quanto sia stanca. «Ma non promettermi cose che non puoi mantenere.»
«Io mantengo sempre le promesse.» Lo dico con convinzione, anche se il nodo in gola rende le parole più difficili da pronunciare.
Lei distoglie lo sguardo. «Non stavolta. Non puoi aggiustare questo.»
Le sue parole mi colpiscono come una lama affilata. Isabel ha sempre avuto questa capacità: dire la verità nuda e cruda, anche quando fa male. Ma non posso accettare che questo sia un punto di rottura per noi.
«Posso provarci,» rispondo, stringendole la mano con più forza. «Perché tu sei tutto per me. Lo sai, vero?»
La vedo deglutire, combattuta tra il voler credere a ciò che dico e il voler proteggersi da altre delusioni. Finalmente annuisce, anche se il movimento è appena percettibile.
Rimaniamo così per un tempo indefinito, senza bisogno di riempire il silenzio con parole vuote. Non c’è bisogno di altro. Solo la certezza che, nonostante il dolore, siamo ancora qui. Insieme.
Ma dentro di me so che questo è solo l'inizio della battaglia. Isabel è forte, ma anche le persone forti si spezzano. E io farò qualsiasi cosa per assicurarmi che lei non cada a pezzi. Perché se c’è una cosa che la vita mi ha insegnato, è che l’amore è l’unica forza in grado di risollevarci dal baratro. E io amo Isabel più di qualsiasi altra cosa.
Adesso devo solo dimostrarglielo.
