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2 - Scacco al re

Daniel

Il sole del mattino filtra attraverso le tende pesanti della mia suite d’hotel, illuminando la stanza con una luce calda, quasi implacabile. Nonostante il letto sia enorme e incredibilmente comodo, mi sveglio con la sensazione di non aver dormito affatto. Colpa sua. Quella ragazza.

Mi passo una mano tra i capelli arruffati, lasciando cadere la testa in modo pesante sul cuscino, con un sospiro frustrato. È stata una serata strana. Per la prima volta da non so quanto, non sono riuscito a trovare nessuna compagnia per la notte. Eric, Ermes e Caleb, invece, si sono organizzati a dovere, scomparendo con sorrisi compiaciuti e promesse di avventure da raccontare. Io invece, sono rimasto inchiodato all'immagine di lei. Appena Caleb se ne renderà conto, mi prenderà in giro fino alla fine dei tempi.

Il fatto è che c'era qualcosa di magnetico nel modo in cui lei sembrava indifferente a tutto, anche a me. Persino a me. Nessuno mi tratta così. Di solito basta uno sguardo, un sorriso, e il gioco è fatto. Ma lei… niente. Mi sono ritirato in camera come un dannato adolescente alle prese con il dolore del primo amore non corrisposto, rigirandomi nel letto per ore, con il suo viso stampato nella mente.

Comunque, è inutile continuare a rimuginarci, ormai è andata. Non ha proprio senso rimanere qui a struggermi. È ora di muoversi. Un caffè, un po' di sole e una mattinata in piscina dovrebbero bastare a farmi tornare il buonumore.

Scendo nell’area relax dell’hotel, un piccolo paradiso ritagliato nel verde di un prato perfettamente curato. Ombrelloni bianchi, lettini immacolati e poltroncine in vimini sono distribuiti in modo così ordinato che sembrano parte di un set cinematografico. Il profumo leggero del cloro della piscina si mescola con quello dei fiori appena irrigati.

Mi sistemo su uno dei lettini, sotto l’ombra di un grande ombrellone, lasciando che i raggi del sole scaldino la mia pelle mentre una brezza gentile mi accarezza il viso. È il tocco perfetto per sciogliere la tensione accumulata.

Mi verso una generosa quantità di olio solare nel palmo e comincio a spalmarmelo con movimenti lenti. Il calore del sole e l’odore agrumato della crema mi rilassano a tal punto che, per un momento, riesco quasi a non pensare a lei. Ma poi, come una sorta di incantesimo, alzo lo sguardo.

E la vedo.

Lei.

Il tempo sembra fermarsi. I miei movimenti si bloccano a metà; il respiro mi si strozza in gola. È lì, a pochi passi da me, con i piedi immersi nell’acqua della piscina e le mani che si muovono con una grazia ipnotica mentre si pettina i capelli.

I raggi del sole giocano con i suoi capelli castani, facendoli brillare di riflessi dorati. Sono lunghi, lisci, e sembrano seta mentre scivolano tra le sue dita. Indossa un semplice costume da bagno rosso, elegante nella sua semplicità, che lascia scoperte le sue spalle e mette in risalto la curva delicata della sua schiena. Una sottile collana d’argento brilla sul suo collo, quasi come un punto di luce magnetico.

La sua pelle ha il colore caldo di un’alba estiva, uniforme e luminosa. Ogni suo gesto è un’armonia: la maniera in cui inclina leggermente la testa mentre districa i nodi, il modo in cui le sue labbra si socchiudono leggermente, come se fosse immersa in un pensiero segreto.

Le gambe, lunghe e affusolate, si muovono appena nell’acqua, creando piccoli cerchi sulla superficie ferma della piscina. C’è una calma innata in lei, un’aura che sembra tenere il mondo intero a distanza.

E io non riesco a fare altro che fissarla, completamente rapito.

Sento il cuore battere più forte, un ritmo sordo che rimbomba nelle orecchie. Sono consapevole che, se qualcuno mi vedesse in questo momento, potrei sembrare un idiota: bocca semiaperta, bottiglia di olio solare ancora in mano, incapace di distogliere lo sguardo. Ma non mi interessa.

C'è qualcosa in lei che mi sfugge, un mistero che non riesco a decifrare. Eppure, allo stesso tempo, sembra quasi familiare, come una melodia dimenticata che ti si insinua nella mente.

Lei non si accorge della mia presenza, o forse sceglie di ignorarmi, continuando a pettinarsi con movimenti fluidi. Ma io non posso fare a meno di chiedermi: chi sei davvero?

Ma più la guardo e piu ho la conferma che non è solo il suo aspetto a incantarmi; è l’atteggiamento, quella distanza quasi palpabile che la separa dal resto del mondo. Ogni suo gesto è un sussurro di indifferenza: lo sguardo stanco che si posa sul telefono, il sospiro che sfugge dalle sue labbra prima che lasci cadere l’oggetto nella borsa accanto.

Non sono abituato a rincorrere. Di solito, sono io il centro dell’attenzione: un faro che illumina, mai un’ombra che insegue. Ma lei ha qualcosa che mi disarma. È come una sinfonia suonata in una lingua sconosciuta: so che è meravigliosa, anche se non capisco il significato.

Resto lì, inchiodato al mio lettino, nascosto dietro gli occhiali da sole che mi danno una finta sicurezza. La osservo mentre si lascia baciare dal sole, ora stesa sul suo di lettino, immobile come una statua scolpita da mani divine. Forse dorme, o forse si è semplicemente ritirata in un mondo tutto suo. Il tempo sembra dilatarsi, e un pensiero mi tormenta: avvicinarmi o desistere?

Alla fine cedo. Non sono uno che aspetta, non lo sono mai stato. Mi alzo, indosso la cuffia da nuoto con un gesto studiato, e gonfio un po’ il petto. Mi avvicino alla piscina nei suoi paraggi, lasciando che il mio passo risuoni sul bordo come un annuncio. Poi mi tuffo con un gesto energico, l’acqua che esplode intorno a me in una cascata di luce e schiuma.

La sua reazione è minima, quasi impercettibile: uno sguardo rapido, infastidito, che mi trapassa come una freccia prima di tornare a ignorarmi. Non mi riconosce. Questo mi spiazza, mi ferisce persino.

Nuoto fino al bordo vicino al suo lettino, tentando di attirare la sua attenzione.

«Scusami, non pensavo di creare uno tsunami tuffandomi!»

Lei alza appena lo sguardo, le labbra si piegano in un sorriso accennato, così lieve che potrebbe essere stato un’illusione. Scrolla le spalle, un gesto che sembra dire: Non importa.

No, non può finire così. Cambio strategia, lasciando che un po’ della mia spavalderia emerga.

«Dovresti mettere una protezione solare più alta. Stai diventando rossa come un gamberetto.»

Finalmente ottengo una reazione: si toglie gli occhiali da sole con lentezza esasperante e mi lancia uno sguardo truce, pieno di una disapprovazione così tagliente che quasi la sento sulla pelle. Non ha bisogno di parlare: il messaggio è chiaro.

Mi sento un idiota, ma non mi arrendo.

«Aspetta… ma non ci siamo già visti?» mi tolgo la cuffia, lasciando che i capelli umidi si scompiglino. Mi avvicino appena, cercando di attirare la sua attenzione. «Ma sì! Ieri sera, abbiamo fatto una foto insieme!»

Lei strizza gli occhi, forse infastidita dal sole o da me. Poi annuisce distrattamente e prende una rivista dalla borsa, come se avesse di meglio da fare.

«Ah, già.»

Tutto qui? Nessun sorriso, nessuna curiosità? Non mi do per vinto.

«Com’è venuta la foto? Posso vederla?»

Lei sospira, un suono morbido e velenoso, e prende il telefono dalla borsa di paglia.

«La ragazza che l’ha scattata deve essersi mossa. È venuta tutta sfuocata, ma non importa.»

Non importa? Sul serio?

Mi passa il telefono senza entusiasmo. Controllo la foto: è un peccato, perché sarebbe stata perfetta. Ed ecco che mi viene un’idea.

«Rimediamo subito!» esclamo, prendendo la fotocamera e sedendomi accanto a lei sul lettino.

La vedo irrigidirsi appena, come una statua che teme di incrinarsi. Il suo profumo mi colpisce, dolce ma non invadente, una fragranza che si insinua nei miei pensieri.

«Facciamo un selfie! Vieni, sorridi!»

Non le lascio il tempo di rispondere. Mi metto in posa, sfoderando il mio miglior sorriso, e scatto. La foto viene perfetta. Lei sembra appena imbarazzata, ma lo nasconde con un’abilità che mi incuriosisce.

«Et voilà.» Le restituisco il telefono, soddisfatto.

Lei guarda la foto con un’occhiata rapida e poi mi ringrazia con educazione, una gentilezza che sembra più un atto di dovere che di piacere.

«Grazie, sei stato gentile. Non dovevi disturbarti.»

«Figurati. È stato un piacere.» La fisso negli occhi, cercando di leggere qualcosa, di capire chi sia questa donna che sembra scolpita nel ghiaccio ma arde di un fuoco invisibile. Non riesco a trattenermi.

«Ma non mi hai detto il tuo nome.»

Con un gesto lento e misurato, si sfila ancora gli occhiali, rivelando uno sguardo che mi colpisce come un colpo ben assestato. C’è una freddezza scintillante, come il riflesso della luna su un lago ghiacciato.

«Non me l’hai chiesto.»

La sua voce è morbida, ma affilata come una lama nascosta in un guanto di velluto. Le sue parole sono tanto semplici quanto taglienti, e per un istante mi lasciano senza fiato. Non so se sia una sfida o una banale constatazione, ma il mio sorriso non si spegne.

«Allora, te lo chiedo adesso.» Inclino leggermente la testa, il tono della mia voce rilassato, come se fossi perfettamente a mio agio. «Posso sapere come ti chiami?»

Lei mi fissa per un lungo momento, valutandomi come si farebbe con un oggetto in vetrina. Il silenzio è così denso che potrei quasi sentirne il peso. Poi, finalmente, rompe l’attesa.

«Isabel.»

Un nome che scivola dalle sue labbra con una leggerezza disarmante, quasi lo considerasse insignificante. Ma per me è tutt’altro. Quel suono si incide nella mia mente, riecheggia come una nota perfetta in una melodia appena composta.

«Isabel…» ripeto piano, assaporando ogni sillaba come fosse una scoperta preziosa. Lei mi porge la mano con un gesto formale, calcolato, e io la stringo. La sua pelle è fresca, vellutata, e per un istante sento il battito del mio cuore accelerare.

«Daniel.» Pronuncio il mio nome con naturalezza, aspettandomi un segno di riconoscimento, un cambio nell’espressione, ma il suo volto rimane impassibile, una maschera perfetta.

«Lo so.»

Due parole. Due semplici sillabe, eppure mi tagliano le gambe. Non c’è traccia di entusiasmo o sorpresa, solo una calma glaciale che spegne ogni scintilla di soddisfazione. Isabel è diversa. Non si scioglie, non si lascia catturare, e questo mi incuriosisce ancora di più.

«Non sembri particolarmente impressionata.» La mia voce è intrisa di una sfumatura ironica, ma dentro di me c’è un pizzico di nervosismo che cerco di nascondere.

Lei scrolla le spalle, un movimento appena accennato, eppure carico di eleganza.

«Dovrei?»

C’è qualcosa di spietatamente sincero in ciò che dice, una verità nuda che mi colpisce più di quanto vorrei. Rimango a fissarla, sentendo il sole scaldarmi la pelle e un fuoco diverso ardere dentro di me.

«No, non è di certo un obbligo.» Mi arrendo, ma solo in apparenza. Isabel ha appena accettato di giocare, anche se sembra ancora ignara delle regole. E io, per la prima volta da tanto tempo, sento che sto per perdermi in una partita che non ho idea di come vincere.

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