1 - Il riflesso negli occhi di una sconosciuta
Stamford, agosto 2021
Daniel
La vita di una rockstar è un eterno pendolo tra l’adrenalina pura e la frustrazione più cupa. Stasera? Decisamente il secondo caso.
«Finalmente giunti a destinazione,» sbuffo, scendendo dall’auto e allungando le gambe come se fossero rimaste incollate al sedile per anni. L’aria della sera mi colpisce in faccia: calda, umida e vagamente familiare, un mix di pini e asfalto bagnato. Non so perché, ma mi ricorda le estati in cui sognavo questo tipo di vita.
Davanti a noi si erge l’Hotel Regent, un edificio imponente, tutto luci dorate e riflessi scintillanti che sembrano promettere lusso e perfezione. L’ingresso principale è illuminato da un’enorme tenda di velluto rosso, con personale in livrea che accoglie gli ospiti con inchini impeccabili. Siamo arrivati giusto in tempo per la raccolta fondi contro il cancro, un evento di beneficenza destinato a un’élite abituata al meglio: champagne, candelabri di cristallo, abiti sartoriali e conversazioni in punta di labbra.
Almeno spenderanno un po' del loro benessere per una causa buona.
«Non riesco a credere che abbiano chiuso la strada per sei ore per un incidente,» borbotto, massaggiandomi il collo. Il tono della mia voce tradisce tutto il nervosismo che ho accumulato in quell’inferno di traffico. Se avessi saputo, avrei chiesto a Caleb di organizzare un jet privato, sarei stato disposto anche a viaggiare in elicottero invece di perdere tempo.
«Sei ore? Non pensavo così tante,» esclama Ermes con il suo solito tono da "non me ne sono accorto di nulla". Tira fuori il telefono come per controllare, mentre io mi limito a fissarlo incredulo.
«Grazie al cazzo che non te ne sei accorto,» ribatto, mollandogli una pacca dietro la testa. «Hai dormito per tutto il tempo come un dannato neonato!»
Ermes mi lancia un’occhiataccia, la sua mano che si sistema i capelli con un gesto teatrale. È il tastierista della band, e come sempre sembra abitare un mondo parallelo. «Non dormivo, riposavo gli occhi.»
«Ah, certo,» dico con sarcasmo. «Chiamalo come vuoi, ma mentre tu “riposavi gli occhi”, noi eravamo bloccati in un concerto di clacson.»
Eric, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, interviene con la sua solita serietà. È il batterista, il metronomo vivente dei Midnight Echoes. «Comunque, ragazzi, dobbiamo sbrigarci. Non c’è tempo per le prove.»
Ecco, il colpo basso. Come se il traffico non fosse bastato. Sento il peso dell’ansia stringersi al petto, ma Caleb, come al solito, è lì a riportare la calma.
«Ragazzi,» dice con quel suo tono calmo ma autoritario, «siamo i Midnight Echoes. Quando mai abbiamo avuto bisogno di prove?»
Mi fermo a fissarlo. Caleb è il nostro chitarrista e un leader naturale, con quella sicurezza disarmante che trasmette a tutti noi. Il suo sorriso sicuro ha un che di contagioso, e per un attimo tutte le preoccupazioni svaniscono.
«Questo è parlare,» rispondo, battendogli il cinque. «D’accordo, andiamo a spaccare tutto.»
Mentre scarichiamo l’attrezzatura dal portabagagli, la tensione sembra dissolversi. Caleb ci tiene tutti uniti, come sempre. È il nostro punto fermo, la roccia su cui possiamo contare.
Il camerino è un caos organizzato, come al solito. Vestiti di scena appesi ovunque, strumenti accatastati agli angoli, e quell’inconfondibile odore di trucco, sudore e caffè ormai freddo.
Mi guardo allo specchio mentre appoggio il sacchetto con il mio outfit sulla sedia. La mia figura riflessa è alta e slanciata: 1,83 metri di pura sicurezza. Il mio viso ha linee decise e occhi color nocciola che sembrano sempre brillare di una luce sfacciata. Non posso fare a meno di notare che i capelli, castano scuro e leggermente ondulati, sono perfetti per la serata.
Il completo è una delle mie scelte preferite: una camicia di seta bianca con scollo profondo, ornata da piccoli cristalli che brillano sotto la luce, e un paio di pantaloni neri a vita alta, aderenti al punto giusto. Un blazer ricamato con motivi dorati completa il look. È audace, sfacciato, e perfetto per il palco.
«Hai finito di innamorarti del tuo riflesso, Daniel?» mi chiede Caleb, appoggiato alla porta con le braccia incrociate, mentre si gratta il mento ricoperto dalla barba. La sua voce è calma, ma il tono nasconde un pizzico di divertimento.
«Sto solo assicurandomi che il pubblico abbia qualcosa di bello da guardare,» ribatto, lanciandogli un’occhiata allo specchio.
«Certo, certo,» dice Caleb, scuotendo la testa. «Quando hai finito, magari ci degni della tua presenza sul palco.»
Non posso fare a meno di ridere. Caleb è sempre stato il mio contrappeso. Dove io sono impulsivo e teatrale, lui è calmo e pratico. E, francamente, non so come farei senza di lui. Lancio un ultimo sguardo al mio riflesso, aggiusto i capelli con una spruzzata di lacca e sistemo il microfono auricolare. Sono pronto.
La sala è un’esplosione di lusso. Pareti ornate con pannelli dorati, tavoli decorati con composizioni floreali degne di un quadro di Renoir, e un grande lampadario che scintilla come una cascata di diamanti. Sotto, ospiti impeccabili si muovono con grazia, indossando abiti firmati e sorrisi studiati.
Accanto al palco, noto un gruppo di ballerini che si prepara per il loro numero. I movimenti fluidi e i costumi scintillanti li fanno sembrare creature di un altro mondo.
Quando salgo sul palco, il mondo sembra fermarsi. Le luci puntano su di me, accecanti, ma non importa. È come se fossi nato per stare qui, al centro dell’attenzione, con un microfono in mano e migliaia di occhi puntati su di me.
Dietro di me, Ermes si sistema alla tastiera, le dita che sfiorano i tasti come se stesse accarezzando un amante. Eric si siede alla batteria, la postura rigida, lo sguardo concentrato. Caleb impugna la sua chitarra con la sicurezza di chi sa esattamente come farla cantare.
Il pubblico mormora, curioso, ma ancora trattenuto. Non sono qui per noi, almeno non ancora. Sono qui per un evento di beneficenza, per mostrarsi, per donare e sentirsi magnanimi. Ma io so come trasformarli.
Prendo il microfono e il mio cuore inizia a battere più forte. È sempre così, un misto di adrenalina e ansia. Ma quando apro bocca e la prima nota scivola fuori, tutto si dissolve.
«Buonasera, Stamford,» dico, la mia voce che rimbomba attraverso gli altoparlanti. Un lieve applauso segue le mie parole. «Siamo i Midnight Echoes, e questa sera vogliamo regalarvi qualcosa di speciale.»
Eric dà il ritmo con un colpo deciso sulla grancassa, e tutto il resto scatta in posizione. Il suono della chitarra di Caleb riempie la sala, una melodia malinconica e potente che sembra vibrare nelle ossa. Poi Ermes si unisce, le sue note che aggiungono profondità e atmosfera. E infine la mia voce.
La prima canzone è un successo assicurato, un brano che abbiamo suonato centinaia di volte, ma che riesce sempre a conquistare. «Shattered Dreams», una ballata rock che parla di sogni infranti e speranza ritrovata.
Il pubblico inizia a muoversi. Qualcuno tamburella con le dita sul tavolo, qualcun altro ondeggia leggermente. È un segno. Li abbiamo presi.
A metà del nostro set, mentre canto un pezzo più energico, il mio sguardo vaga per la sala. E la vedo.
Una ragazza, in piedi vicino al bar, con un bicchiere di vino rosso in mano. È quasi nascosta dall’ombra, ma c’è qualcosa in lei che cattura immediatamente la mia attenzione. I capelli scuri incorniciano un viso dai tratti delicati, e i suoi occhi sembrano brillare anche nella penombra. Non sorride, non parla con nessuno. È come se fosse fuori posto, ma al tempo stesso impossibilmente magnetica.
Chi sei? penso, senza smettere di cantare.
Lei alza lo sguardo, forse sentendo il peso della mia attenzione. Per un attimo i nostri occhi si incontrano, e il tempo sembra fermarsi. Ma poi lei distoglie lo sguardo, indifferente, e prende un sorso dal suo bicchiere.
La canzone finisce, e l’applauso del pubblico riempie la sala. Mi concedo un respiro profondo, ma la mia mente è ancora su di lei.
Il nostro spettacolo finisce in grande stile, con una versione potente di «Echoes of the Night». Il pubblico applaude, qualcuno si alza in piedi, e io mi inchino con un sorriso che maschera l’euforia che provo. Questo è il momento che amo di più, quando so di aver fatto la differenza, anche solo per un’ora.
Dietro le quinte, Eric mi lancia un asciugamano. «Bel lavoro, capo.»
«Grazie,» rispondo, asciugandomi il sudore dalla fronte.
Caleb entra poco dopo, la chitarra ancora in mano. «Non male, Daniel. Forse un po’ troppa teatralità sulla seconda canzone, ma… funziona.»
Lo ignoro, ridendo. «La teatralità è il mio marchio di fabbrica.»
Poi mi fermo, il pensiero di quella ragazza che torna a galla. Devo trovarla.
Tra il caos del backstage, la noto. Una donna che sembra completamente fuori posto e, allo stesso tempo, perfettamente a suo agio. Si tiene un po’ in disparte, lontana dai flash e dai sorrisi forzati, come se fosse immune all’atmosfera febbrile che ci circonda.
La sua figura elegante cattura il mio sguardo. L’abito nero con un lungo spacco laterale le accarezza il corpo con ogni passo. Le spalle scoperte riflettono debolmente la luce soffusa, mentre i capelli castani, raccolti in un’acconciatura morbida, incorniciano un viso che sembra scolpito nella pietra, tanto è imperturbabile.
Si avvicina con passi lenti, decisi, e ogni movimento sembra calcolato, come se fosse abituata a dominare l’attenzione senza richiederla. Quando è abbastanza vicina, il suo profumo – una nota calda e floreale con un accenno di miele – mi colpisce, insinuandosi nella mia mente come un ricordo che non ho mai vissuto.
«Ciao,» dice, con una voce morbida ma priva di esitazione. «Posso fare una foto con te?»
Resto interdetto per un istante. Non perché la richiesta sia strana – succede continuamente – ma per il modo in cui lo chiede. Non c’è traccia di entusiasmo o adorazione nel suo tono, solo un’indifferenza che mi destabilizza.
«Certo,» rispondo, sfoderando il mio miglior sorriso.
Lei si guarda intorno e attira l’attenzione di una passante con un cenno appena accennato. La donna accetta di scattare la foto e prende il telefono che lei le porge.
Mi metto accanto a lei, il mio braccio che scivola automaticamente dietro le sue spalle. Ma il suo corpo si irrigidisce. È un gesto sottile, quasi impercettibile, ma abbastanza da farmi capire che questa donna non è come le altre.
La foto viene scattata in pochi secondi. «Grazie,» dice lei, riprendendo il telefono.
Poi, senza aggiungere altro, si volta e va via.
La guardo mentre si allontana, l’abito che ondeggia leggermente con i suoi passi, e sento il bisogno quasi fisico di seguirla. Non so chi sia, ma c’è qualcosa in lei che mi intriga profondamente.
Mi scuoto dai miei pensieri quando Eric mi richiama per una foto di gruppo. Ma mentre mi avvicino ai ragazzi, so già che non riuscirò a togliermi quella donna dalla testa.
