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CAPITOLO 6

La sera era calata definitivamente su Ravenswood, e un manto di stelle rischiarava appena i tetti della città. Le luci lungo le strade disegnavano percorsi familiari ma allo stesso tempo carichi di silenzi e domande. Ognuno dei quattro ragazzi aveva preso la propria direzione dopo quella breve tregua insieme alla caffetteria, portandosi dentro un intreccio di sensazioni contrastanti.

Zed lasciò l’autobus due fermate prima del solito. Aveva bisogno di camminare un po’ nel quartiere semideserto, sotto i lampioni fiocchi e il profumo dell’aria fresca di settembre. Indossava ancora la giacca della divisa sbottonata, la cravatta allentata e le mani ben piantate nelle tasche dei jeans. La strada era costeggiata da palazzine modeste, con le porte d’ingresso affacciate direttamente sul marciapiede. Qua e là si accendeva una televisione dietro una finestra, e qualche auto passava lenta.

Quando raggiunse l’edificio in cui viveva con sua madre, si fermò un istante a osservarne la facciata scrostata. Non c’erano ringhiere lucide o decorazioni floreali come a Ravenswood, solo un muro grigio, con un’insegna mezza scolorita all’ingresso. Fece un respiro profondo e salì i gradini. In fondo, non si aspettava di trovare nessuno ad accoglierlo. Sua madre lavorava come cameriera in un ristorante notturno, e i suoi turni la tenevano fuori casa fino a tarda notte.

Infatti, l’appartamento era silenzioso. Zed gettò lo zaino su una sedia e si tolse la giacca, lanciandola distrattamente su un appendiabiti sbilenco. Poi si avvicinò alla sua stanza, dove un vecchio amplificatore e una chitarra elettrica sostavano in un angolo come compagni di vita. Si accoccolò sul bordo del letto, passandosi una mano sul viso. Ripensò a quel breve momento trascorso con i suoi amici. Pur con qualche tensione, era stato strano sentirsi parte di un piccolo cerchio di confidenza. Era come se ogni tanto dimenticasse di essere abituato alla solitudine.

Dopo qualche minuto di esitazione, Zed afferrò la chitarra e la posò sulle ginocchia. Accese l’amplificatore a basso volume, tanto da non svegliare eventuali vicini, e lasciò che le sue dita scorressero sulle corde. Una melodia malinconica si diffuse nella stanza scura, riempiendola di una tenue vibrazione. Era il suo modo di parlare senza aprire bocca, di raccontare quel senso di disagio che spesso lo faceva sentire fuori posto. Forse quella sera avrebbe composto qualche riga di testo su un quaderno sgualcito, oppure si sarebbe limitato a suonare finché la stanchezza lo avesse vinto.

Isa stava rientrando in un appartamento molto diverso. La casa di sua zia, posizionata in un complesso residenziale dalle architetture più moderne, ma dall’interno poco curato. Sua zia lavorava come segretaria in uno studio legale e, purtroppo, era spesso impegnata anche la sera. Isa la trovò in cucina, ancora vestita con un tailleur, mentre scaldava frettolosamente un piatto al microonde.

“Ciao, tutto bene a scuola?” domandò la zia, togliendosi le scarpe col tacco con un sospiro stanco.

Isa annuì con gentilezza. Non c’era mai stato un grande spazio per confidenze profonde tra loro, ma aveva imparato a non aspettarsi troppe domande. Si limitò a raccontarle del carico di studio già accumulato e dell’impatto di questo ultimo anno. La zia le fece un cenno distratto, poi le augurò la buonanotte e si ritirò in camera, portandosi dietro qualche pratica da finire.

Rimasta sola, Isa decise di prepararsi una tisana e si sedette al tavolo di legno con i suoi appunti. Accese una lampada dal paralume colorato che proiettava sul muro ombre vagamente calde. Ancor prima di aprire i libri, si ritrovò a fissare un foglio bianco, come se fosse un campo ancora incolto da riempire con i suoi pensieri. Avrebbe potuto scrivere un diario, ma l’idea di mettere nero su bianco le proprie emozioni la faceva sentire esposta. Malgrado ciò, la giornata aveva acceso una miriade di domande dentro di lei.

Zed, Evan, Clem. Da quanti anni erano parte della sua esistenza? E in quanti modi diversi quegli stessi anni li avevano cambiati? Si chiese se fosse capace di esprimere a qualcuno i segreti che custodiva, compresa la paura di amare e di perdere. Ogni tanto, quando pensava ad Evan, un calore sottile le invadeva lo stomaco, un misto di gioia e timore. Eppure, non aveva mai osato rivelargli nulla. E per quanto riguardava Zed, quanta distanza si era creata negli ultimi tempi? Chiuse gli occhi, scacciando i troppi pensieri. La attendeva un anno lungo e complicato, ma forse era giunto il momento di non affrontarlo solo con il peso dei libri sulle spalle.

Evan attraversò un vialetto fiancheggiato da siepi perfette, illuminato da faretti da giardino. La villa in cui abitava si ergeva elegante e silenziosa, con una fila di finestre dalle tende bianche che non lasciavano intravedere nulla dell’interno. Aprì la porta con il proprio duplicato di chiavi, e fu accolto dal buio pressoché totale.

Le luci del salone si accesero automaticamente quando Evan azionò l’interruttore. L’arredamento era di lusso, i mobili di design, i pavimenti di marmo. Era tutto così perfetto da sembrare un’esposizione più che una casa vissuta. Nessuna traccia di genitori in giro. Erano fuori città, in viaggio d’affari, come sempre. Un appunto sul tavolo del soggiorno recitava: “Evan, tuo padre ti saluta. Torniamo la prossima settimana. Se hai bisogno di soldi extra, chiama il nostro consulente. Ti vogliamo bene.”

Lui lesse e si morse il labbro, come a trattenere una punta di rabbia e amarezza. Poi alzò lo sguardo verso la vasta sala, domandandosi se esistesse un modo per sentirla davvero ‘casa’. Spesso invitava gli amici a far festa, a ridere e a dimenticare quella solitudine. Ma quella sera, non ne aveva voglia. Posò il borsone e si accoccolò su un divano che sembrava troppo grande per una sola persona.

Prese il cellulare, scorrendo pigramente la galleria di foto. Alcune di viaggi fatti con i genitori quando era bambino, altre più recenti con Clem, Zed, Isa. Si fermò su uno scatto in cui Isa era di profilo, intenta a leggere un libro durante un pomeriggio di studio, i suoi capelli castani erano mossi da un leggero vento, gli occhiali riflettevano la luce del sole. Chissà se lei aveva mai notato il modo in cui lui la guardava. Spense lo schermo, sforzandosi di non perdersi in fantasie romantiche. Per quanto potesse cercare di negarlo, sentiva che quell’anno sarebbe stato più intenso del previsto, e la sua più grande paura era di non riuscire a esprimere mai ciò che sentiva davvero.

Clem viveva invece in una palazzina allegra, con tendine colorate alle finestre e un ingresso fiorito. Sua madre, appassionata di botanica, aveva sistemato vasi di piante lungo tutto il corridoio comune, e lei stessa contribuiva ogni tanto con qualche composizione creativa. Era una casa piena di calore, sebbene non particolarmente lussuosa. Al rientro, Clem trovò la madre seduta in salotto a sfogliare una rivista.

“Ciao, stella” la salutò la donna “Com’è andata la prima giornata?”

Clem sorrise, adagiando la borsa sul divano. Raccontò in modo leggero quello che era successo, omettendo i dettagli più intimi, e accennò al progetto fotografico che aveva in mente.

La madre la incoraggiò come sempre, insistendo che era fiera di lei.

“Questo è il tuo ultimo anno, devi godertelo e anche portare a termine i tuoi sogni” disse.

Dopo aver cenato insieme, Clem si ritirò in camera sua. Le pareti erano decorate con foto di servizi passati, di sfilate, di paesaggi esotici che sognava di vedere dal vivo. Un angolo della stanza era occupato da una specchiera a figura intera, e lì lei provò un nuovo outfit per il giorno seguente, accennando qualche posa da modella per sdrammatizzare la tensione della giornata. Tuttavia, la sua mente tornava costantemente a Zed, Isa, Evan. Era contenta di quel piccolo passo fatto insieme al bar, ma sentiva che ciascuno di loro aveva un universo di questioni irrisolte e paure da affrontare.

“Siamo quattro linee che si incrociano, ma potremmo restare unite se solo lo vogliamo davvero”, pensò.

Era decisa a non lasciar scivolare nessuno di loro nell’isolamento o nella tristezza. Magari non sarebbe riuscita a risolvere i problemi di tutti, ma avrebbe fatto di tutto per dimostrare che l’amicizia poteva essere un punto fermo.

Nelle ore seguenti, la notte avvolse l’Accademia e l’intera città. Le stanze vuote dei corridoi di Ravenswood risuonavano del silenzio del dopo-lezioni. Soltanto qualche luce di sicurezza illuminava le vetrate istoriate, creando riflessi sulle statue di marmo che, come guardiani muti, vegliavano sull’edificio. Pareva quasi che l’antica scuola attendesse il nuovo giorno, e con esso tutte le storie, i drammi e i desideri dei suoi studenti.

In quattro diversi punti della città, Zed, Isa, Evan e Clem si lasciavano cullare dai loro pensieri. Ognuno di loro, in quell’ultima notte di estate, provò un misto di malinconia e speranza. Malinconia per le certezze che sentivano sfuggire, speranza per le possibilità che quest’anno poteva ancora offrire. Nessuno lo avrebbe ammesso apertamente, ma in fondo ai loro cuori sapevano che, forse, non sarebbero stati così soli se avessero trovato il coraggio di fidarsi gli uni degli altri.

E mentre la luna s’innalzava sempre più nel cielo, ognuno di loro si rendeva conto di quanto fosse cruciale il tempo che restava prima della fine di quell’anno. Perché, in un modo o nell’altro, quell’ultimo anno all’Accademia Ravenswood avrebbe segnato il confine tra ciò che erano e ciò che sarebbero diventati. E il destino, come un regista silenzioso, stava già muovendo i fili delle loro vite verso scelte che avrebbero cambiato per sempre i loro cammini.

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