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CAPITOLO 7

Il secondo giorno di lezioni a Ravenswood si aprì con un cielo coperto di nuvole plumbee, in netto contrasto con il sole tiepido che aveva salutato il rientro scolastico solo ventiquattr’ore prima. L’aria era appesantita da una minaccia di pioggia e da un vento tagliente che sferzava le chiome degli alberi. Zed arrivò a scuola di malavoglia, con la giacca della divisa appoggiata su una spalla e lo sguardo rivolto a terra. Aveva passato la notte a suonare la chitarra, dormendo appena qualche ora. Gli accordi melanconici si erano mescolati ai ricordi di un’infanzia confusa e a pensieri che non riusciva a scacciare.

Non aveva grande voglia di parlare con nessuno. Anzi, avrebbe preferito filarsela subito e andare a rifugiarsi in qualche locale semideserto a strimpellare. Eppure, si sforzò di tenere duro. Era solo il secondo giorno, e non voleva dare ai professori la soddisfazione di vederlo già mancare. Aggirò così l’atrio gremito, puntando verso i corridoi più interni. Sentiva il brusio degli studenti che si salutavano, le risate di chi raccontava aneddoti estivi, e gli richiuse un po’ lo stomaco. Non sopportava quelle chiacchiere leggere, che sembravano ignorare quanto fosse complicata la vita fuori dalle mura dell’Accademia.

Fu mentre stava svoltando l’angolo per raggiungere il suo armadietto che accadde qualcosa di inaspettato. Un ragazzo di un anno più piccolo, con un taglio di capelli rasati ai lati e un’aria di sfida stampata sul viso, lo fermò piazzandosi davanti a lui. Altri due compagni, chiaramente suoi amici, si disposero alle sue spalle. Erano volti familiari. Uno di loro, Zed lo ricordava bene, faceva parte di un gruppo di bulli che tormentava i borsisti.

“Ehi, Ashmore” disse il primo in tono beffardo “Com’è che ti senti tanto figo da mettere becco in questioni che non ti riguardano?”

Zed gli restituì uno sguardo freddo, stringendo le mani a pugno dentro le tasche. Lo aveva già incrociato il giorno prima, quando l’aveva sorpreso a umiliare uno studente più piccolo.

“Non sopporto i prepotenti” rispose, con voce bassa ma ferma.

L’altro ghignò, mettendo le mani sui fianchi.

“Ho sentito che ieri sei andato a lamentarti con un prof, dicendo che te la sei presa con uno del quarto anno. Non sei stanco di fare l’eroe? Da quando in qua ti importa di qualcuno?”

Zed scosse il capo, sentendo il sangue ribollire. In realtà, non aveva denunciato nessuno, ma era evidente che la voce si fosse sparsa e travisata. L’unica cosa che aveva fatto era impedire a quel tipo di picchiare un borsista, e la situazione si era risolta sul momento. Non c’era stato alcun reclamo ufficiale, nessun professore informato. Eppure, adesso questi bulli sembravano in cerca di vendetta.

“Sentite, se volete fare a cazzotti, parliamone chiaro” replicò, leggermente spazientito “È un corridoio di scuola, non il retro di un locale. Ci sono professori ovunque. Non credo vi convenga.”

La tensione salì di colpo. Il capetto, quello con i capelli rasati, fece un passo avanti e lo spinse leggermente con una mano sul petto. Non era un gesto forte, ma sufficiente a far scattare Zed come una molla. Sentì la rabbia acuirsi, mischiata a un fremito di paura. Sapeva che con la reputazione che si ritrovava, sarebbe bastato un secondo per finire nei guai seri. Ma, l’istinto di difendersi e di non farsi sottomettere era più forte di qualunque ragionamento logico.

“Sei un povero borsista di mezza tacca” sibilò l’altro “Fossi in te, non mi impiccierei degli affari altrui. È chiaro?”

Zed serrò la mascella. Avrebbe voluto dirgli un paio di cosette ben precise, ma in quel momento si accorse di un’ombra che si muoveva alle spalle dei bulli. Era Evan, che percorreva il corridoio probabilmente alla ricerca della sua aula. Aveva notato la scena e, in un istante, si era fatto largo tra gli studenti curiosi che avevano iniziato a rallentare per guardare. Con la sua altezza e i muscoli segnati dall’allenamento di basket, riuscì a farsi notare subito.

“Hey, tutto ok qui?” chiese Evan, con un tono fermo ma privo di ostilità.

Gli occhi del capetto schizzarono su Evan. Sapeva chi fosse, il ‘figlio di papà’ super popolare, uno di quelli che, in teoria, non avrebbero dovuto voler avere nulla a che fare con un ribelle come Zed. Eppure, la sua presenza costituiva un ostacolo inaspettato.

“Non ti riguarda, Calloway” rispose l’altro, sfidandolo con lo sguardo “È una questione tra me e questo… eroe da quattro soldi.”

“Qui l’unico eroe da quattro soldi sembri tu” ribatté Evan “Perché non te ne vai e la smetti di dare fastidio?”

I due si fronteggiarono per un istante di tensione palpabile. Il capetto parve soppesare la situazione. Se avesse deciso di picchiare Zed, si sarebbe dovuto scontrare anche con Evan, e quello non era uno scontro che desiderasse in mezzo al corridoio, sotto gli occhi di tutti. L’espressione sul suo viso passò dalla collera al disprezzo, poi fece un cenno ai suoi due amici.

“Andiamo. Ma non finisce qui” disse, lanciando uno sguardo di avvertimento a Zed.

I tre si allontanarono, borbottando e spingendo studenti e matricole per farsi spazio. Man mano che il corridoio si svuotava, chi per la curiosità soddisfatta, chi per la paura di restare coinvolto, rimase solo un silenzio teso. Zed sentì il cuore martellargli nel petto, ma mantenne un’apparenza di calma. Fece qualche respiro per frenare la voglia di correre dietro a quei tizi e gettarli al suolo. Poi, lentamente, si voltò verso Evan.

“Ci mancava pure il tuo intervento” sbottò in modo brusco, sebbene fosse un po’ sollevato.

Evan alzò le spalle, senza scomporsi.

“Ho visto che le cose stavano degenerando. Mi è sembrato normale intervenire.”

“Non ho bisogno di un baby-sitter” replicò Zed, con tono secco.

Evan distolse lo sguardo, indispettito dal sarcasmo di Zed, ma anche consapevole che l’orgoglio del ragazzo fosse più un muro di difesa che altro. In fondo, tra i due c’era sempre stata una forma di rispetto silenzioso, sebbene nascondessero tutto dietro battute pungenti. Dopotutto, erano molto diversi, eppure legati a Clem e Isa in modo profondo.

“Sai, Zed… a volte ammettere che abbiamo bisogno d’aiuto non è un segno di debolezza” disse Evan, incrociando le braccia “Certo, puoi fare tutto da solo e beccarti un pugno sui denti, ma se qualcuno può darti una mano…”

Zed fece per ribattere, ma venne interrotto dalla figura imponente di un professore che apparve in fondo al corridoio, osservandoli con aria sospettosa. Presto sarebbe suonata la campanella, e le aule avrebbero inghiottito tutti. Con un cenno brusco, Zed raccolse i suoi pensieri e si avviò verso l’armadietto, senza dire altro. Evan, dopo un attimo di esitazione, lo lasciò andare, dirigendosi a sua volta verso la propria classe.

Per Zed, il resto della mattinata fu un tormento di nervosismo. Durante le lezioni non riuscì a concentrarsi, continuava a pensare a quell’alterco mancato e a come i bulli del giorno prima sembrassero decisi a incastrarlo in qualche modo. Più cercava di scacciare l’ansia, più questa lo rosicchiava. Il dubbio che potesse scoppiare un litigio ben peggiore incombeva nella sua testa.

Le cose precipitarono a metà mattina, quando un bidello entrò in classe cercando proprio Zephyr Ashmore. Con aria tesa, disse che il preside lo aspettava nel suo ufficio. Zed si mise in piedi di scatto e, tra i mormorii di alcuni compagni, seguì il bidello lungo i corridoi. Aveva un brutto presentimento. Di sicuro, quei tipi avevano trovato il modo di vendicarsi.

Quando varcò la soglia dell’ufficio del preside, vide che all’interno erano già presenti i tre bulli, seduti con un’aria offesa e ansiosa di giustizia. Uno di loro aveva un livido leggero sullo zigomo, probabilmente procurato in qualche altra rissa, ma che ora stava usando come ‘prova’ contro Zed. Il preside, un uomo di mezza età dai capelli grigi e lo sguardo severo, li guardava con un misto di irritazione e sfinimento.

“Ashmore, siediti” disse con voce autoritaria.

Zed si sedette, cercando di non mostrarsi intimorito. I tre bulli lo fissavano con occhi carichi di rancore. L’aria sembrava carica di tensione elettrica.

“È stato riferito un episodio di violenza nel corridoio questa mattina” iniziò il preside, serrando le mani sul tavolo “A quanto pare, questi ragazzi sostengono che tu li hai aggrediti senza motivo, colpendo uno di loro. Puoi spiegarci la tua versione?”

Zed sentì un lampo di rabbia e frustrazione salire dal petto allo stomaco. Era palese che l’accusa fosse stata orchestrata per metterlo nei guai. Inoltre, nessuno l’aveva visto picchiare nessuno. Era stato anzi lui a subire la spinta, ma sembrava che i bulli l’avessero rigirata in modo da apparire vittime. Con la reputazione che aveva, era facile dipingerlo come il colpevole.

“È una bugia” disse, guardando di traverso il ragazzo col livido “Non li ho neanche toccati. Sono stati loro a spingermi. Chiedete in giro, ci saranno almeno dieci persone che hanno visto.”

L’interessato, quello con i capelli rasati, scattò in piedi puntandogli contro un dito.

“Balle! Mi hai colpito tu, e l’hai fatto di proposito. Tutti sanno che sei un violento, Ashmore! Ti pare che un bullo come te possa passarla liscia?”

Il preside lo fulminò con lo sguardo.

“Basta. Siediti.”

Poi, tornò a fissare Zed. Per un istante, sembrò quasi dispiaciuto, come se non avesse voglia di occuparsi di un altro caso di indisciplina, ma il dovere lo costringeva a essere intransigente.

“Ashmore, tu hai già dei precedenti richiami per comportamento scorretto, ricordi? Risse, atteggiamenti aggressivi, mancanza di rispetto verso i professori…”

Zed strinse i pugni. Era vero, non poteva negare che in passato avesse spesso reagito in modo duro a provocazioni e ingiustizie. In questo caso, però, era innocente. Ma come dimostrarlo? Stava per ribattere, quando la porta dell’ufficio si aprì di colpo. Entrò, decisa, la professoressa di musica, una donna sulla quarantina, dai capelli raccolti e un’aria gentile, che Zed ricordava per averla incrociata qualche volta in aula. Aveva uno sguardo di fuoco.

“Preside, mi scusi” disse lei, con voce ferma ma rispettosa “Chiedo di intervenire. Mi è stato riferito che ci sono state tensioni nel corridoio. Ho parlato con due studenti di un’altra classe che affermano di aver visto la scena e di poter testimoniare che Zephyr Ashmore non ha aggredito nessuno. In realtà, è stato spinto.”

Lo sguardo dei bulli cambiò espressione. Uno di loro ingoiò a vuoto, e un altro si raddrizzò nervoso sulla sedia. Zed sentì un’ondata di sollievo misto a sorpresa. C’era qualcuno che lo difendeva, qualcuno che aveva avuto il coraggio di farsi avanti. La prof di musica guardò il preside con aria decisa.

“Ho chiesto ai due studenti di aspettare fuori, se desidera interrogarli di persona. Sarei felice di far luce su questa situazione. Non credo sia giusto incolpare un ragazzo senza prove certe.”

Il preside rimase in silenzio per qualche lungo secondo. Poi si alzò in piedi e fece un cenno alla professoressa, invitandola a far entrare i testimoni. I tre bulli si lanciarono sguardi preoccupati. Zed, nel frattempo, cercava di mantenere un atteggiamento freddo, pur provando un intenso desiderio di beffarsi della loro maldestra menzogna.

Fu un momento che sembrò interminabile, ma che aprì uno spiraglio di speranza. Forse, pensò Zed, la verità stavolta verrà fuori. E mentre in cuor suo ringraziava quei due studenti sconosciuti che si erano fatti avanti, sentì anche una fitta di sollievo. Non tutto a Ravenswood era marcio o manipolato. C’era ancora chi sapeva distinguere il giusto dallo sbagliato.

L’esito di quell’incontro sarebbe dipeso dalla testimonianza dei due ragazzi e dalla volontà del preside di ascoltarli. Zed non poteva dire di essere del tutto salvo, perché conosceva bene la sua reputazione e i favori che i bulli spesso riscuotevano da certe cerchie. Ma, per la prima volta da tempo, intuì che non era costretto a combattere da solo. E, se davvero fosse riuscito a sventare quelle false accuse, avrebbe compiuto un piccolo, grande passo verso un futuro in cui non tutti fossero pronti a crederlo colpevole solo perché ribelle.

Nel corridoio fuori dall’ufficio, alcuni studenti buttavano occhiate curiose, sperando di origliare qualcosa. In mezzo a quel gruppetto, c’erano anche volti noti: Isa, con gli occhiali abbassati sul naso e un’espressione in ansia; Evan, che l’aveva raggiunta dopo aver saputo la notizia; e Clem, con la fronte aggrottata e lo sguardo preoccupato. Tutti e tre attendevano un segno, un cenno, un esito. Perché, che Zed lo volesse o no, stavano tutti dalla sua parte. E questo, in un’Accademia spietata come Ravenswood, era un sostegno che poteva fare la differenza.

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