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CAPITOLO 3

– EVAN -

Entro nello spogliatoio della palestra con un sorriso che, a sentirlo dall’esterno, potrebbe sembrare sgargiante. Appena spingo la porta, il vociare dei miei compagni di squadra mi travolge. Parlano di basket, di prove di selezione per i nuovi giocatori, di strategie per la prossima stagione. Mi unisco a loro con battute pronte, scambi di pugni chiusi in segno di saluto e pacche sulle spalle. Da fuori, potrei sembrare un ragazzo a cui tutto riesce facile. Ho la macchina sportiva, vivo in una villa enorme, ho un fisico atletico e un fascino che non mi è mai pesato. Eppure, dietro questo sorriso e il tono di voce sicuro, sento ancora una volta quel vuoto che mi accompagna fin da quando ho memoria.

Quando mi guardo nello specchio sopra i lavandini, vedo un ragazzo biondo dai tratti sicuri, con lineamenti definiti e occhi grigi che alcuni trovano ipnotici. Tiro un sospiro e mi passo una mano tra i capelli, sistemando una ciocca ribelle. So bene che ci sono persone pronte a invidiarmi, ma se solo potessero entrare nei miei pensieri, capirebbero che i miei presunti privilegi non sempre riescono a riempire un’esistenza. Ho imparato presto che non basta avere soldi per non sentirsi soli.

“Evan, vieni a giocare con noi?”

Una voce familiare mi strappa alle mie riflessioni. Mi giro e riconosco Trevor, il capitano dell’anno scorso, che sta invitando alcuni compagni a una partitella estemporanea per testare i nuovi potenziali acquisti della squadra. Alzo il mento, sfoggiando un mezzo sorriso che maschera il mio distacco.

“Certo, datemi solo il tempo di cambiarmi.”

Butto lo zaino in un angolo, tolgo la giacca della divisa e inizio a indossare la canotta con il numero 11 che ho sempre portato con orgoglio. Il basket è uno dei pochi ambiti in cui mi sento realmente vivo, è un gioco di strategia, di velocità e di precisione. Sul campo, la mia mente si svuota dalle preoccupazioni e divento semplicemente ‘Evan’, il playmaker che guida i compagni e che non perde quasi mai una sfida. Forse è la mia forma di evasione, o il mio modo di sentirmi parte di qualcosa di autentico.

Una volta sistemato, esco dallo spogliatoio e mi incammino verso il campo. Il pavimento in parquet luccica di nuova vernice, la luce dei riflettori che rimbalza sui canestri mi fa strizzare gli occhi. Eppure, dentro di me avverto quella tensione elettrica che mi mette in moto. Non appena mi avvicino al canestro, palleggio un paio di volte. Il rumore sordo della palla sul legno è come un battito che mi fa sentire al sicuro.

Dall’altra parte del campo, osservo i nuovi candidati, ragazzi che ci guardano con rispetto e nervosismo. Io mi piazzo in posizione, pronto a cominciare quella che è poco più di un’esibizione. L’arbitro improvvisato fischia, e tutto il mondo, per qualche minuto, si riduce al campo da basket. Passaggi, dribbling, tiri. Lo stridore delle scarpe sul parquet.

È lì che mi sento me stesso, libero da ogni maschera.

Quando la partitella finisce, Trevor si avvicina a me con un sorriso.

“Sei in forma, Calloway. Sarà un grande anno per la squadra.”

Annuisco, asciugandomi il sudore dalla fronte con l’asciugamano.

“Sì, speriamo. Quest’anno voglio portare la squadra ancora più in alto.”

Mi piace spingere sempre oltre i limiti, perché è così che riesco a non pensare alle troppe assenze dei miei genitori, ai pranzi solitari nella sala da pranzo troppo grande, alle vacanze passate da solo con qualche tutor o governante. Voglio sentirmi vincente almeno qui, dove posso controllare il risultato con le mie mani.

“Evan!”

Questa volta la voce che mi chiama da bordo campo è diversa, femminile, piena di un calore inconfondibile. Mi volto e vedo Clem, la mia migliore amica di sempre, che mi osserva con un sorriso ampio. Ha addosso la divisa dell’accademia, ma la rende sempre più vivace con qualche dettaglio colorato, come una sciarpina sgargiante o braccialetti abbinati. Anche stavolta, i suoi capelli rossi le scendono sulle spalle con grazia, e il suo sguardo è di quelli che ti mettono di buon umore, quasi senza volerlo.

“Ehi, Clem!” rispondo, alzando una mano in segno di saluto.

Mi dirigo verso di lei, la palla da basket ancora stretta nel palmo.

Clem mi porge una bottiglietta d’acqua.

“Bella partita. Ho visto che sei carico come sempre.”

“Già, mi serviva un po’ d’azione,” dico, buttando giù qualche sorso.

Poi la guardo negli occhi, notando un leggero velo di preoccupazione.

!Tutto bene?”

Lei si stringe nelle spalle.

“Sì, solo che… ci sono tante cose in ballo quest’anno. Sai, con Zed che sembra più cupo del solito e Isa che è sempre troppo dura con se stessa, a volte vorrei riuscire a fare di più per aiutarli. E pure tu…”

Distolgo lo sguardo.

“Io cosa?”

Clem sorride, ma è un sorriso dolce-amaro.

“Tu hai quel sorriso di facciata, ma sai che non mi inganni. Dovresti concederti di mostrare ciò che provi, ogni tanto.”

Rimango in silenzio, faccio rimbalzare la palla un paio di volte, come se quel gesto potesse spezzare il momento. Siamo amici da sempre, e lei mi conosce meglio di chiunque altro. Non mi sfugge mai quanto sia brava a intuire i miei pensieri, anche quelli che cerco di mascherare. Alla fine, scrollo le spalle.

“È il primo giorno, Clem. Non angustiarti già. Vedrai, andrà tutto bene.”

Lei sospira, ma mi appoggia una mano sul braccio.

“Hai ragione. Ma se hai bisogno di parlare… io ci sono, ok?”

Mi limito ad annuire, poi le accenno un sorriso di gratitudine. Da bambini, eravamo inseparabili, passavamo i pomeriggi a inseguirci nel giardino di casa mia o a inventare storie incredibili nella sua cameretta. Adesso siamo più grandi, ma la nostra complicità non è mai sbiadita. Eppure, ci sono cose che neanche a Clem riesco a confessare. Per esempio, quanto io sia coinvolto da Isa. Ogni tanto vorrei chiedere a Clem che ne pensa, come la vede lei, ma poi mi fermo. Temo di sembrare un ragazzino disperato, o di rovinare l’equilibrio del gruppo.

Poco dopo, abbandono la palestra e mi avvio verso gli spogliatoi per una doccia veloce. Devo cambiarmi in fretta, la prossima lezione in aula mi aspetta, e anche se non sono uno che impazzisce per lo studio, voglio almeno evitare l’ennesima ramanzina da parte dei professori. Mentre l’acqua scroscia sui miei muscoli, i pensieri tornano a Isa. L’ho vista stamattina, di sfuggita, quando mi è passata accanto nella hall. Aveva quel suo solito sguardo assorto, gli occhiali tondi che le scivolavano sul naso, e i capelli castani raccolti in una coda. Mi è bastato un istante per ricordare quanto mi piacciano i suoi occhi verdi, così seri eppure così espressivi.

Sono anni che le giro attorno, proteggendola in silenzio. Mi preoccupo per lei come se fosse la cosa più naturale del mondo, eppure non trovo mai il coraggio di dirle cosa provo davvero. Forse perché, con il tempo, ho imparato che non sempre si può ottenere ciò che si desidera, e ho paura di rovinare l’amicizia che c’è tra noi, per quanto flebile e indiretta possa essere. Mi chiedo se lei mi veda come un amico, come il ricco che gioca a fare il grande protettore, o se intuirebbe che dietro le mie attenzioni c’è un interesse molto più profondo.

Dopo la doccia, con i capelli ancora umidi, torno a indossare la divisa. La giacca mi va a pennello, e non devo neanche preoccuparmi di sistemarla troppo. Mia madre mi ha insegnato l’arte dell’eleganza formale fin da ragazzino, prima di partire per uno dei suoi viaggi d’affari interminabili. Stringo i polsini e mi guardo di nuovo allo specchio: ecco Evan Calloway, il playmaker di Ravenswood, il ragazzo con la macchina sportiva. Chissà se questa facciata prima o poi cederà sotto il peso delle mie insicurezze.

Afferro lo zaino e mi avvio lungo il corridoio verso l’aula di economia e finanza. Durante il tragitto, passo davanti alla biblioteca. Attraverso le porte di vetro, scorgo Isa che cammina tra gli scaffali, concentrata su chissà quale volume. Mi fermo un istante, un piede ancora nel corridoio, l’altro di fronte all’ingresso. Potrei entrare, fare finta di dover prendere un libro, parlarle almeno per un minuto. Ma resto immobile. Fatico a gestire quella timidezza che provo solo con lei.

Prima che possa decidermi, la campanella suona. Lascio perdere e proseguo, insultandomi mentalmente per la mia mancanza di coraggio. Mi chiedo se, in un luogo come Ravenswood, sia più difficile ammettere di avere una debolezza, un bisogno, un sentimento. Qui tutto sembra impostato, secondo regole precise, dove le emozioni vanno tenute sotto controllo, come fossero un fastidioso contrattempo. Ma io sto capendo, anno dopo anno, che nessuna ricchezza e nessun successo sul campo potranno colmare un vuoto se non risolvo le mie questioni interiori.

La lezione di economia è un misto di numeri e tabelle, scenario di mercato e studi sulle multinazionali. L’aula è piena di studenti con la calcolatrice a portata di mano. Io mi siedo in terza fila, cercando di dare almeno un’aria di partecipazione. Il professore, un uomo altissimo e affusolato, sembra particolarmente entusiasta di introdurci ai principi della macroeconomia. Mentre prendo qualche appunto, la mia mente divaga, penso ai miei genitori, a come passano le loro giornate chiusi in sale riunioni di grattacieli sparsi nel mondo, mi ricordo le poche occasioni in cui siamo stati davvero insieme. È ironico che io sieda qui, a imparare come muovono i loro imperi finanziari, quando una parte di me li detesta per avermi lasciato sempre da solo.

A un certo punto, getto l’occhio all’orologio. Mancano quindici minuti alla fine della lezione, e mi sembra di non aver appreso granché. O forse ho appreso soltanto di non voler finire come mio padre, una vita spesa in jet privati e transazioni miliardarie, senza mai fermarsi a conoscere chi sono davvero le persone a lui vicine.

Al termine della lezione, saluto con un cenno alcuni compagni, poi mi fermo davanti a una delle grandi finestre del corridoio principale. Da qui si vede il cortile interno: aiuole geometriche, viali ben curati, statue neoclassiche che tengono in mano libri o strumenti musicali. Vedo gruppetti di ragazzi che chiacchierano tra loro, un paio di coppie che passeggiano mano nella mano, altri che si affrettano a raggiungere la mensa o le aule. Mi chiedo dove siano Isa, Zed e Clem in questo momento. Sento una certa malinconia. Un tempo eravamo più uniti. O, forse, non lo siamo mai stati davvero? In fondo, ognuno di noi ha sempre avuto il proprio rifugio: Zed la musica, Isa i libri, Clem il suo mondo di moda e relazioni, e io… beh, io ho il basket e un paio di futili ostentazioni per sentirmi vivo.

In un impeto quasi inaspettato, decido di cercare Clem. Se c’è qualcuno con cui posso parlare liberamente, è lei.

Tiro fuori il cellulare e scrivo un messaggio veloce: « Dove sei finita? Pause time, caffè? »

Non passa nemmeno un minuto che mi arriva la risposta: « Arrivo, dammi due minuti! :-) »

Sorrido e infilo il telefono in tasca. Mentre mi dirigo verso l’atrio principale, mi impongo di mettere da parte la mia solita maschera di invulnerabilità. Forse dovrei ammettere che questo ultimo anno mi spaventa tanto quanto mi elettrizza. Le scelte che faremo ora potrebbero condizionare il nostro futuro, forse per sempre.

E se invece non fossi all’altezza? Se fallissi con la squadra, se non riuscissi a sostenere la pressione dei miei genitori, se perdessi ogni possibilità di conquistare Isa…

Agito la testa, come a scacciare via quei pensieri. In fondo, sono Evan Calloway, il ragazzo che riesce sempre a ottenere ciò che vuole. Questo mi dicono gli altri. Ma la verità è che, finora, ho sempre inseguito obiettivi che non mettevano in gioco la mia anima. Il basket mi appassiona, ma non spinge in profondità come l’amore che potrei confessare, o la rabbia che ogni tanto vorrei vomitare contro questa vita iper-perfetta che non mi appartiene.

Mi sistemo ancora una volta la giacca, butto fuori un respiro e mi incammino nel corridoio. Probabilmente incontrerò qualche faccia nota, magari stringerò le mani di nuovi compagni, farò il solito, sfacciato sorriso da leader. Ma so bene che, da qualche parte, c’è un fuoco che brucia e che ho sempre cercato di tenere a bada. Forse, in questo ultimo anno, non potrò più ignorarlo.

Intravvedo Clem che mi viene incontro, raggiante come sempre. Alzo la mano per farmi notare. E, mentre i nostri sguardi si incrociano, sento un leggero senso di sollievo al pensiero di non essere completamente solo in questa avventura. Uno sguardo rapido alle persone che ci circondano, ai volti conosciuti e a quelli sconosciuti, e mi convinco che in questo anno ci sarà spazio per tutto: per vittorie e sconfitte, per amori e delusioni, e per una nuova consapevolezza di chi siamo davvero.

Mentre Clem si avvicina e sorridiamo l’uno all’altra, non posso fare a meno di pensare a Isa, a Zed, alle loro storie, ai loro tormenti. Magari, se saremo disposti ad affrontare le nostre paure, potremo sostenerci a vicenda, come un vero gruppo di amici. In fondo, Ravenswood non è solo un luogo dove competere e brillare. Può essere anche il teatro di una trasformazione che ci porterà verso la vita adulta, qualsiasi forma essa decida di assumere.

E chissà che, alla fine, io non riesca a trovare il coraggio di inseguire ciò che davvero desidero. Forse la parte più difficile è proprio ammettere a me stesso che, per una volta, vincere una sfida significherà mettere in gioco il cuore, non solo la mia abilità su un campo da basket.

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