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Capitolo 6 - William

L’altra è Patricia. Era. Una donna che ha segnato il mio passato e, molto probabilmente, mi ha rovinato il futuro.

Ricordo ancora la prima volta con lei. Mi baciava in modo turbolento, vorace, come se volesse divorarmi. Non c’era spazio per esitazioni o dolcezze. Prima che le mie labbra potessero sfiorare le sue, la sua lingua era già nella mia bocca, a esplorare, a reclamare. Lei, a cavalcioni su di me, il vestito sollevato, le mutandine inesistenti, e le mie mani che stringevano i suoi glutei sodi, incapaci di trattenersi.

«Scopami, William.»

Non era una richiesta. Era un ordine. E io l’ho eseguito senza esitazione, con la stessa precisione con cui avrei risposto a un comando durante un’operazione sul campo. Non solo perché si trattava del Capitano Moore, ma perché Patricia era irresistibile. Un concentrato di potere e sensualità che sembrava fatto apposta per infrangere regole e distruggere certezze.

Ero lontano da casa, distante anni luce da Theresa, che in confronto sembrava una bambina con le trecce, troppo ingenua per reggere il confronto con una donna come Patricia. Theresa chiamava "fare l’amore" anche una scopata frettolosa, e tutto quello che sapeva darmi era una timida dolcezza che non riusciva più a soddisfarmi. Quello che facevo con Patricia, invece, era tutt’altro. Era sesso. Crudo, brutale, travolgente. Ogni volta che eravamo insieme, sembrava di entrare in guerra. E io non mi tiravo indietro.

Ricordo ogni dettaglio di quella prima volta. Le sue mani sicure che afferravano la mia erezione con una determinazione che nessuna donna aveva mai mostrato prima. Le sue dita esperte che guidavano il mio membro verso il suo sesso caldo e pronto, un invito che non ammetteva rifiuti. Ero dentro di lei in un colpo solo, profondo e deciso, e il gemito che le sfuggì dalle labbra si fuse con il mio, creando un suono che riempì l’aria e si stampò nella mia memoria come un tatuaggio.

Patricia si inarcava sopra di me, i suoi movimenti carichi di controllo e desiderio, il suo seno pieno che si offriva alla mia bocca senza esitazioni. Non era solo una donna; era una forza della natura. Le sue curve erano morbide ma potenti, il suo corpo si muoveva come un’onda, cavalcando ogni colpo con una grazia feroce.

Io non mi trattenevo. Le baciavo il petto, affondavo i denti nei suoi capezzoli, assaporavo il sale della sua pelle. Ogni leccata, ogni morso era un atto di devozione al piacere. E mentre i miei fianchi si muovevano con forza, affondando sempre più a fondo dentro di lei, sentivo il mondo sparire. Ogni colpo era un’esplosione di piacere che mi faceva dimenticare tutto: Theresa, la mia vita, il mio lavoro. Non c’erano pensieri, non c’erano dubbi. Solo Patricia e il fuoco che bruciava tra di noi.

Le sue unghie graffiavano la mia schiena, lasciando segni rossi che avrei sentito per giorni. Il suo respiro era pesante, ogni gemito un comando, ogni movimento una sfida. Non c’era spazio per la tenerezza, non c’era niente di delicato o romantico. Era puro istinto, una battaglia tra corpi che cercavano di dominarsi a vicenda.

Ero sopraffatto, conquistato, e al tempo stesso ero un soldato sul campo, obbedendo ai suoi ordini con una devozione che non avevo mai provato per nessuno. Patricia era la mia capitana, nel letto e nella vita, e in quel momento mi sembrava che nessun’altra donna potesse mai eguagliarla.

E poi, la voce della dottoressa mi riporta al presente.

«William? Chi è l’altra?»

Caccio via l’immagine di Patricia, quel primo incontro, e tutto quello che ne è seguito. Dopo quel giorno, non ci siamo più fermati. Abbiamo sperimentato tutto, dal sesso estremo alle posizioni più audaci. Lei mi aveva soggiogato, fatto prigioniero della sua presenza. Non ero più lo stesso, nemmeno con Theresa. Non riuscivo nemmeno a immaginare Theresa in certi momenti. Non potevo vederla mentre mi prendeva in bocca. Non glielo avevo mai chiesto. Non le avevo mai chiesto nulla.

E mentre io la tenevo a distanza, mio fratello si prendeva ciò che io non riuscivo a toccare. Theresa non solo aveva accettato, ma aveva gradito.

«Possiamo continuare domani?» chiedo, la voce più bassa del solito, mentre una sensazione di disagio si insinua in me. I ricordi mi stringono la gola, mi fanno sentire soffocato.

Lei non risponde subito. Depone la penna a sfera nell’agendina e la chiude con calma, un gesto studiato che amplifica il peso del silenzio. Poi si alza, prende le sue cose e si avvia verso la porta.

«Ginger?»

Non so perché la chiamo per nome. È un impulso istintivo, un tentativo di trattenerla, forse.

Lei si ferma, la mano sulla maniglia, ma non si volta. «Per te sono la dottoressa Roger.»

«Okay. Va bene, dottoressa Roger,» mi correggo in fretta, la mia voce un misto di ironia e nervosismo.

Finalmente si gira, e il suo sguardo di ghiaccio si posa su di me. Il tailleur grigio le aderisce perfettamente, sottolineando la curva dei suoi fianchi. Ha un bel culo. Non posso fare a meno di notarlo, anche se so che non dovrei. I tacchi le allungano le gambe, rendendola ancora più imponente. La sua mano resta ferma sulla maniglia, ma non tira giù.

«Allora, Peterson? Che cosa vuoi?»

Non voglio niente. O forse sì. Voglio uscire da qui, tornare a respirare l’aria sporca di Denver, sentire il vento sulla faccia. Ma so che non succederà. Passeranno anni prima che possa mettere piede fuori di questa prigione, e per allora avrò dimenticato come si vive.

«Se fossi stato fortunato come Thomas Miller, ti avrei fatto urlare per il piacere. Non te l’avrei mai negato.»

La frase le arriva come una scossa. Per un istante, le trema la mano sulla maniglia della porta. È un movimento quasi impercettibile, una reazione che cerca di nascondere, ma io lo noto. Non mi sfugge nulla. Le sue spalle si irrigidiscono, un riflesso involontario che tradisce il suo autocontrollo.

Ginger resta ferma per un lungo momento, la tensione evidente nella linea del suo corpo. Poi si gira lentamente, il viso perfettamente composto, ma nei suoi occhi di ghiaccio c’è una scintilla di qualcosa. Rabbia? Forse. Ma c’è anche un’altra emozione, più difficile da decifrare.

«Ma si dà il caso che tu sia un criminale,» risponde infine, la voce severa, tagliente. Ogni parola è come una frustata che si abbatte su di me, una punizione per la mia sfrontatezza. «E faresti meglio a toglierti dalla testa certe immagini. Non faranno altro che peggiorare la tua situazione.»

Il tono è controllato, ma posso sentire la tensione sotto la superficie. C’è qualcosa di personale nella sua risposta, qualcosa che va oltre la sua professionalità.

La guardo, la osservo attentamente mentre pronuncia quelle parole, mentre cerca di ristabilire la distanza tra noi. Ma la distanza è già compromessa. Il mio commento ha colpito nel segno, scalfito quella facciata perfetta che si sforza tanto di mantenere.

Poi apre la porta e va via, sbattendola dietro di sé con un rumore secco che riecheggia nella stanza vuota. Rimango immobile, da solo con i miei pensieri e la sciocchezza che mi sono appena lasciato sfuggire.

Ma, dopotutto, Ginger è una bella donna. E in parte, mi ricorda Patricia.

Poco dopo, l’agente mingherlino rientra. È visibilmente nervoso mentre mi intima di alzarmi. Mi scorta fino alla mia cella senza dire una parola, e una volta che la porta si chiude dietro di me, il silenzio mi avvolge di nuovo.

Resto solo. Solo con me stesso. Solo con i ricordi che non mi danno tregua.

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