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Capitolo 5 - Ginger

«Sei una frigida stronza, Roger,» sibila Miller, la sua voce un’arma affilata che mi colpisce dritta al petto. È a un palmo dal mio viso, così vicino che sento il suo respiro caldo sfiorarmi la pelle. Il suo tono basso è carico di veleno, un attacco deliberato.

Ostento sicurezza. I muscoli tesi, il respiro calmo. Non posso permettermi di reagire, non con lui che cerca di farmi perdere il controllo. Eppure, dentro di me, una parte vorrebbe semplicemente spingerlo via, metterlo a tacere.

«Chiediti ora come mai gli uomini preferiscono fotterti senza nemmeno regalarti un po’ di piacere.»

Le sue parole sono come un pugno nello stomaco. Non per il loro contenuto – sono solo cattiverie meschine – ma per il modo in cui le pronuncia, per il momento che sceglie. Ora, con la sala vuota, con quel tono che riecheggia come un colpo secco contro le pareti. Adesso, dopo che nemmeno due ore fa era lui a scoparmi e a negarmi quel piacere che ora osa rinfacciarmi.

Lo fisso dritto negli occhi mentre si allontana. I suoi movimenti sono rigidi, carichi di tensione, come se aspettasse una mia reazione. Ma non gliela darò.

Arrivato alla porta, si ferma e si gira a guardarmi. «Buona fortuna con lui, Roger. Ne avrai bisogno.»

La sua ironia mi irrita, ma rimango immobile. Non gli concedo nemmeno una parola. Lo osservo mentre esce, chiudendosi la porta alle spalle con un gesto brusco. Il rumore della porta che si chiude è come un sollievo improvviso. Finalmente, siamo soli.

Chiudo la porta con un gesto deciso, lasciando che il metallo scatti con un suono secco. Inspiro profondamente, la mano che si posa sulla maniglia per un momento. È un gesto quasi impercettibile, ma necessario per ritrovare la calma, per rimettere insieme i pezzi di una sicurezza che Miller ha cercato di scalfire con le sue parole.

Mi volto e attraverso la stanza. Le spalle dritte, la testa alta, ogni passo misurato per non tradire il minimo segno di esitazione. Torno al mio posto e mi siedo, il blocco di appunti davanti a me, mentre il silenzio della stanza sembra pesare come una cappa.

È allora che sento la voce di William, bassa ma tagliente, come una lama affilata. «Se non avessi avuto le manette, gli avrei spaccato la faccia.»

Le sue parole mi colgono di sorpresa, facendomi sollevare lo sguardo verso di lui. C’è qualcosa nei suoi occhi – un misto di rabbia e... protezione? No, non devo permettere a me stessa di pensarlo.

«Davvero?» ribatto, la mia voce ferma, con una punta di ironia.

«Davvero,» replica, e per un attimo i nostri sguardi si agganciano. È un momento carico di tensione, ma non posso permettere che prenda il sopravvento.

«Io, invece, ti ricordo che il motivo per il quale sei qui è proprio perché senza manette hai fatto del male a qualcuno,» dico, la mia voce ferma, come una sentenza.

Lui non risponde. Non subito. Ma i suoi occhi non si spostano dai miei. Li sento su di me, due lame che mi scrutano, che scavano dentro come se volessero aprire ogni crepa.

«Allora? Torniamo a noi?»

«Torniamo a noi,» ribatte, calcando con malizia sull’ultima parola.

Non mi piace il modo in cui l’ha detto, come se la frase fosse impregnata di sottintesi. Non glielo lascio vedere. Non glielo permetterò. Tra i due, l’unica sana di mente, quella con il controllo di sé, sono io.

«Perché l’hai fatto, William?» domando, tagliando corto.

«Sei mai stata tradita?» ribatte, con una calma che mi coglie impreparata.

La domanda è come uno schiaffo improvviso. Tradita? Certo che lo sono stata. Sempre. Da chiunque. Ogni singolo giorno da quando ho deciso di vivere una vita immersa in questa melma, divisa tra bastardi come Miller e criminali come Peterson. Tradita da ogni uomo che ha mai cercato il mio corpo, ma non la mia anima. E, soprattutto, tradita da me stessa, perché ho accettato tutto questo. Mi sono accontentata, ho abbassato le mie aspettative, mi sono nascosta dietro la scusa del lavoro per evitare di affrontare il vuoto che ho dentro.

Lo guardo, ma non lascio trasparire nulla.

«Non sei nella posizione di porre le domande,» rispondo, gelida, tagliando il suo tentativo di scavare dentro di me.

William sorride appena, ma il suo sguardo si abbassa per un istante. Ha quell’aria di chi si crede superiore, l’uomo che non deve mai chiedere nulla, quello che con uno sguardo può conquistare chiunque.

«E poi non ti credo, William,» aggiungo, inclinandomi leggermente in avanti.

«A cosa?»

«A te non fregava niente di Theresa Sullivan.»

Lui solleva lo sguardo, e per un istante c’è un lampo nei suoi occhi. «Era la mia fidanzata.»

«L’amavi?»

Il silenzio che segue è pesante, carico di significati. I suoi occhi si spostano, sfuggono dai miei, e so già la risposta.

«Bene,» dico, rompendo il silenzio. «Era come sostenevo io.»

«Negli anni ho sopravvalutato molto l’amore,» mormora infine, con un tono che suona quasi come un’ammissione.

«Quindi?» incalzo.

«Ho tradito anche io Theresa.»

La mia penna si ferma sul blocco appunti. Le sue parole mi colpiscono, ma non lascio trasparire nulla.

«E lei scommetto che non lo sa,» ribatto, alzando lo sguardo per incontrare di nuovo il suo.

«No.»

William solleva gli occhi e mi fissa, la sua espressione indecifrabile. «Tu l’hai vista?»

Scuoto la testa. «No, non ancora. È in ospedale, e la polizia ha già raccolto la sua testimonianza.»

Lui annuisce lentamente, come se stesse rimuginando sulle mie parole. Poi parla, e la sua voce si incrina appena. «Per me era poco più di una bambina. All’inizio volevo proteggerla, l’amavo...»

«Cosa è successo dopo?»

«È successo che l’accademia militare mi ha cambiato,» risponde, con una durezza che sembra dire più di quanto le parole rivelino.

«L’accademia o un’altra donna?» lo incalzo, scrutandolo attentamente.

Un sorriso amaro si allarga sulle sue labbra. «Entrambe.»

Per un momento, sembra che le sue difese si stiano sgretolando, come se stesse rivelando qualcosa di sé che non ha mai detto a nessuno. C’è un lampo nei suoi occhi, una vulnerabilità che mi coglie di sorpresa.

«Perché non l’hai lasciata? Theresa, intendo.»

Lui si inclina in avanti, lo sguardo ancora fisso su di me. «Perché lei era la brava ragazza, quella da sposare. Poteva essere la madre perfetta per i miei figli.»

«E l’altra?»

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