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Capitolo 4 - William

Ho un problema, e non lo scopro certo oggi. È un problema che mi porto dietro da sempre: una bomba a orologeria nascosta sotto la pelle, pronta a esplodere al primo segnale di pericolo. La rabbia mi consuma, si insinua in ogni fibra del mio essere, e basta un niente – uno sguardo storto, una parola di troppo – per farla scattare. Mi sento come un topo con le spalle al muro, sempre. Una creatura intrappolata, che graffia e morde per sopravvivere.

È la sensazione di vivere in un mondo che mi è nemico, dove tutti tramano contro di me, dove ogni passo è una trappola, ogni sorriso un inganno. Mi convinco che c’è un complotto dietro ogni angolo, che qualcuno stia lavorando nell’ombra per farmi cadere, per distruggermi.

Ma la verità? Non c’è nessuno da incolpare. Nessuno mi ha mai fatto così tanto male quanto me stesso. Sono io che mi sono distrutto. Ho preso decisioni sbagliate, ho lasciato che il fuoco della mia rabbia bruciasse ogni cosa intorno a me. Con le mie mani, con le mie scelte, con la mia fottuta incapacità di fermarmi prima di oltrepassare il punto di non ritorno.

Ripenso a Theresa. A quella prima volta. È stato come un blackout, un momento in cui tutto è svanito tranne la rabbia. Lo ricordo ancora: il suono sordo dello schiaffo, il suo corpo che vacilla, gli occhi spalancati per lo shock prima che cadesse a terra. Non ero più io. Ero una bestia.

Eppure, non è quella la scena che mi tormenta di più. È successo di nuovo, tre giorni fa. Stavolta, non c’era equilibrio da perdere. Stavolta, era in trappola. E io non mi sono fermato. Non ho voluto fermarmi. È questo che mi uccide.

Ho rivisto la stessa scena nella mia mente mille volte da allora. Lei che mi guarda, gli occhi pieni di paura, e io che continuo, cieco, sordo. Una parte di me sa che avrei potuto fermarmi, che avrei dovuto fermarmi. Ma quella parte non era abbastanza forte.

«Peterson?»

La voce mi riporta al presente, tagliando attraverso il caos nella mia mente. È la dottoressa. Ginger Roger. Un nome che suona come una battuta, ma il modo in cui lo dice non lascia spazio al sorriso. È ferma, autoritaria, con quella sicurezza che mi irrita e mi intriga allo stesso tempo.

«William? Mi senti?»

C’è qualcosa nel modo in cui pronuncia il mio nome che mi spinge a guardarla. Non posso ignorarla. La sua voce non ha solo fermezza; c’è una nota più profonda, qualcosa che mi colpisce. È come se mi stesse tirando fuori da un abisso, con una corda che non voglio afferrare.

C’è qualcosa nel modo in cui dice il mio nome. Vorrei quasi illudermi che sia preoccupata per me, ma so bene che non è così. Probabilmente desidera vedermi morto, nudo in una cella piena di topi affamati pronti a divorarmi vivo.

«Che fai, Peterson? Sei diventato sordo o fai finta di non sentire?»

L’avvocato Miller mi passa una mano davanti al viso, il suo sorriso da stronzo stampato in faccia. Vorrei spazzarglielo via con un pugno, ma le manette che mi stringono i polsi rendono tutto impossibile. So che è un vigliacco: senza queste catene non avrebbe mai osato provocarmi.

«Sì,» borbotto infine, con un tono che è poco più di un grugnito.

«Possiamo continuare?» domanda Ginger, i suoi occhi che si fissano nei miei con un’intensità che mi fa sentire come se fossi sotto un microscopio.

«Certo che possiamo continuare,» si intromette Miller, parlando al posto mio con quella sua maledetta aria di superiorità. «Mica si è stancato. Non ha un cazzo da fare, il nostro ex poliziotto.»

Ginger non gli presta attenzione. Non lo guarda neanche. I suoi occhi rimangono puntati su di me, come se fossi l’unica persona nella stanza.

«Possiamo continuare, William?» ripete, e stavolta la sua voce è diversa. È più calma, più morbida, persino... dolce.

«Sì,» rispondo piano, e lei resta in silenzio per un istante.

Miller sbuffa, la sedia accanto alla mia che scricchiola mentre si siede in modo scomposto. La sua gamba inizia a muoversi nervosamente, un tic che mi irrita quasi quanto la sua presenza.

«Nessuno ti costringe, possiamo anche continuare domani,» dice Ginger, e il suo tono sembra quasi comprensivo.

«Suvvia, Ginger! Con i pezzi di merda come questo non serve la gentilezza,» sbotta Miller, sbattendo un pugno sulla scrivania.

Il suono rimbomba nella stanza, ma io resto immobile. Anche Ginger non reagisce. I suoi occhi non si allontanano dai miei, e per un attimo mi sento intrappolato in quello sguardo. È strano, inquietante, come se riuscisse a vedermi per quello che sono davvero.

«Ti darei l’ergastolo, pezzo di merda,» esclama Miller, e stavolta lo fa con una tale cattiveria che mi viene il sospetto stia cercando di provocarmi deliberatamente.

E ci riesce.

Vorrei stringere le mani attorno al suo collo, farlo tacere per sempre, ma tutto quello che posso fare è stringere i pugni, le manette che mordono la mia pelle, e mordermi la lingua per non rispondere.

«Anzi, per quelli come te vale solo la pena di morte!»

«Basta!» La voce di Ginger esplode nella stanza, tagliando l’aria come una frustata.

Per la prima volta, i suoi occhi si spostano su Miller. Il suo sguardo è glaciale, tagliente, e non lascia spazio a repliche. Si alza dalla sedia con una determinazione che riempie la stanza, fa il giro del tavolo e si avvicina alla porta con passi decisi.

«Ti voglio fuori di qui,» dice, il tono secco e autoritario.

«Stai scherzando?» Miller si alza, visibilmente contrariato. «Non ti lascio da sola con questo pazzo criminale.»

Ginger si volta verso di lui, le mani sui fianchi, lo sguardo che sembra poter incenerire. «Preferisco restare sola con questo pazzo criminale e fare il mio lavoro, piuttosto che sentire ancora la tua voce di merda.»

Spalanca la porta e batte un piede sul pavimento, come per sottolineare la sua decisione. «Smettila di fare il coglione e vai fuori dai piedi!»

«No!» ribatte Miller, il volto paonazzo.

«Chiederò di farti sollevare dall’incarico,» ribatte lei senza scomporsi.

«Mi faresti solo un favore,» sbotta lui, ma la tensione è palpabile.

«Vai fuori, Thomas,» conclude Ginger, il tono così gelido da lasciare poco spazio a ulteriori discussioni.

Miller si alza, passa accanto a me e mi scruta con uno sguardo pieno di disprezzo. Lo ignoro, il mio sguardo fisso su Ginger, che rimane immobile accanto alla porta, la sua presenza che riempie la stanza anche dopo che Miller se n’è andato.

E per un momento, in quel silenzio, mi chiedo cosa la renda così diversa dagli altri.

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