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Capitolo 2 - William

È una fortuna che mi abbiano messo in una cella di isolamento. Se fossi stato tra gli altri detenuti, mi avrebbero già inculato e strappato le palle per poi farmi mangiare ogni singolo pezzo.

Merda! Sto iniziando a parlare come Adrian… quel figlio di puttana deve avermi contagiato. E se oggi sono qui, è tutta colpa sua. Sua e di Tessa.

La mia vita era perfetta prima che lei andasse a letto con mio fratello. Chiudo gli occhi, cercando di scacciare l’immagine di loro due insieme. So che non è del tutto vero, che le cose non stanno così semplicemente, ma è più facile odiare loro che affrontare il resto. Hanno avuto il privilegio di conoscere la mia rabbia, tutta la mia rabbia, solo perché erano nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Non dovrei pensarci, non serve a niente. Ma i ricordi si insinuano lo stesso.

Non mi fa impazzire il fatto che Tessa sia finita con Adrian. Non è la gelosia che mi uccide. È tutto quello che è seguito. Era tutto programmato, tutto scritto. Lei sarebbe diventata mia moglie – anche se non era perfetta per me, nemmeno vicina a esserlo – e io avrei avuto la mia promozione, la mia uscita pulita da quell'inferno. Invece, eccomi qui, rinchiuso come un animale.

«Peterson, c’è il tuo avvocato.»

La voce dell’agente rompe i miei pensieri. Alza il chiavistello e apre la cella con un clangore che mi rimbomba nelle orecchie. Mi ammanetta, come se potessi davvero fare qualcosa in queste condizioni. È un ragazzino magro, con la divisa troppo larga per il suo corpo. Prova a strattonarmi, ma non ci riesce. Lo guardo dall’alto in basso e per un momento mi sento superiore, anche se so che non dovrei.

Attraverso il corridoio, con le voci dei detenuti che mi piovono addosso.

«Ehi, Peterson, come va con le donne?»

«Hai ancora il pugno pesante?»

«Chissà se tuo fratello sta ancora ridendo!»

Non rispondo. I commenti scivolano su di me senza lasciare traccia, almeno così mi piace pensare. Ma le immagini si accavallano: Tessa stesa a terra, il suo viso senza sensi dopo che l’ho colpita. Adrian, con quegli occhi pieni di rabbia e delusione, come se fossi la peggiore delle merde. E io che perdo il controllo, sparando al mio stesso fratello.

«William, buongiorno.»

La voce dell’avvocato Miller mi riporta alla realtà. È già lì, seduto al tavolo, con il suo solito completo impeccabile e l’aria di uno che ha già perso. Rispondo con un cenno del capo, ma non mi sforzo di essere cordiale. Miller non è qui per aiutarmi. È un avvocato d’ufficio, uno che non ha scelta. E so che mi odia.

«Prego, accomodati.»

Mi siedo, sbattendo la sedia sul pavimento. È allora che la vedo. Una donna è seduta di fronte a me, composta e impeccabile nel suo tailleur grigio. I capelli biondo platino le incorniciano il viso in una cascata liscia che le arriva poco oltre le spalle. Gli occhi sono di un grigio trasparente, quasi ipnotici, ma lo sguardo è gelido, distante. Una statua di cera che sembra appena uscita da una vetrina di lusso.

«Posso andare?» domanda l’agente che mi ha scortato fin qui. Lo osservo con un sorrisetto. Povero idiota. Non ha idea di quello che succede in questo mondo.

Miller lo liquida con un gesto della mano e poi mi lancia un’occhiataccia. Mi appoggio allo schienale della sedia, con un mezzo sorriso stampato in faccia. Non c’è niente da ridere, lo so, ma non riesco a trattenermi.

«William Peterson.» Miller pronuncia il mio nome con la condiscendenza di un insegnante che ha appena sorpreso un alunno a fare una cazzata. Poi indica la donna. «Le presento la dottoressa Roger.»

«Quindi?» sbotto, fissandola. Lei non batte ciglio.

«È qui per lavorare con me.» Lo sguardo che Miller le lancia è carico di sottintesi. Ah, certo. Probabilmente scopano nei momenti di pausa. E ora questa qui deve dirmi come aggiustare la mia testa?

«È una psicologa.»

«Non sono pazzo!» urlo, alzandomi in piedi così bruscamente che la sedia striscia all'indietro sul pavimento, emettendo un suono stridente. Le manette tintinnano mentre sbatto le mani sulla scrivania, il metallo freddo che vibra sotto le mie dita. Sento il sangue pulsare nelle tempie, un battito sordo che accompagna la mia rabbia.

Lei non si muove di un millimetro. Rimane lì, seduta, il corpo perfettamente eretto, le mani incrociate davanti a sé. Non reagisce, non trema, non c'è neanche un battito di ciglia a tradirla. È come se fossi trasparente, come se tutto il mio furore fosse un insignificante alito di vento che non la sfiora nemmeno.

La sua calma glaciale mi irrita ancora di più. Voglio vederla crollare, voglio strapparle quella maschera di superiorità dal volto. «Mi sente, dottoressa? Ho detto che non sono pazzo!» insisto, la voce più bassa ma altrettanto tagliente, mentre mi chino leggermente verso di lei.

«Si sieda, Peterson,» interviene Miller, spingendomi sulla sedia con una mano decisa sulla spalla. La forza che usa non è molta, ma basta per farmi ricadere pesantemente sul sedile. «Non faccia il bambino.» Il suo tono è pieno di disgusto, una frustrazione appena velata che mi fa stringere i denti. «È già abbastanza avvilente avere a che fare con lei.»

Un sorriso amaro si allarga sul mio viso. «Mi creda, non è una passeggiata neanche per me,» ribatto, il sarcasmo che gocciola dalle mie parole. Lo fisso, sfidandolo a rispondere.

Lui non si tira indietro. Si china verso di me, puntandomi un dito contro come se fosse il mio insegnante delle elementari. L'unghia curata del dito indice sembra quasi una lama che affonda dritta nel mio orgoglio. «Sa che ha dei problemi, vero? E lo sappiamo anche noi.» La sua voce è bassa, ma carica di un’autorità che non gli riconosco. «Se si comporta come un essere umano, forse riesco a salvare almeno il mio culo. Se continua così, la vedo male. È chiaro?»

Trattengo a stento la voglia di reagire, di urlare qualcosa che so peggiorerebbe solo la situazione. Invece, stringo i pugni, le manette che mordono la pelle dei polsi. «Chiaro,» sibilo, fissandolo con uno sguardo che vorrebbe perforarlo.

E poi c’è lei. La dottoressa Roger. Ancora immobile, ancora silenziosa. Mi osserva con quei suoi occhi grigi che sembrano lame di ghiaccio, taglienti e implacabili. Non c’è giudizio nel suo sguardo, ma nemmeno pietà. È come se stesse analizzando ogni mio movimento, ogni mio respiro, smontandomi pezzo per pezzo senza dire una sola parola.

Per un attimo, mi sento esposto. Come se sapesse già tutto di me. Come se avesse già scavato così a fondo da vedere cose che io stesso mi rifiuto di affrontare.

Non resisto. «Che c’è, dottoressa?» chiedo con sarcasmo, cercando di riprendere il controllo. «Non ha nulla da dire? O sta aspettando che faccia qualche altra scenata per aggiungerla ai suoi appunti?»

Finalmente si muove. Inclina appena la testa, come un cacciatore che osserva la sua preda dibattersi. «Non ho bisogno di provocarla, Peterson,» risponde con una voce così calma che mi fa rabbrividire. «Si sta già esponendo da solo.»

Le sue parole mi colpiscono come un pugno. Stringo i pugni ancora più forte, il metallo delle manette che affonda nella pelle. Cerco di non lasciare che si veda quanto mi ha colpito. «Interessante analisi,» ribatto, con un sorriso forzato.

Miller sospira, scuotendo la testa. «Ecco perché siamo nei guai,» borbotta tra sé, ma abbastanza forte da farmelo sentire.

Lei non distoglie lo sguardo. È un duello silenzioso, e per la prima volta, ho la sensazione di non avere il controllo. Non su di lei, non su questa situazione. E certamente non su me stesso.

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