8. Tutto tranne docile
La sala è un teatro d’ombre e di luci dorate. La musica si muove sinuosa tra i corpi, carezzando la pelle come un invito sussurrato troppo vicino all’orecchio. Il vestito mi scivola addosso come una seconda pelle, ma è il mio sguardo a essere l’arma più affilata stanotte. Lo cerco, lo scruto, lo sfido.
Riven è lì, a pochi metri. Circondato da gente che non osa toccarlo davvero. Gli parlano, gli sorridono, ma nessuno lo sfiora. Perché lui non è fatto per essere toccato. Lui si conquista. O si teme.
Ed è per questo che, quando l’uomo sconosciuto mi porge la mano per ballare, io accetto.
Non perché mi interessi. Ma perché voglio che Riven guardi.
Voglio che sappia che non basterà un anello al dito, né una firma su un contratto per domarmi. Per possedermi.
Le sue dita si chiudono sulle mie. La sua presa è ferma, elegante, sicura. Ha l’accento lievemente straniero, ma non ne colgo subito la provenienza. Non mi interessa davvero.
La pista si apre sotto i nostri passi e io lo lascio condurre, ma solo in apparenza. In realtà, sono io a decidere ogni centimetro che gli concedo, ogni sguardo che lo illudo di guadagnare.
«Non ti aspettavo così docile,» mormora lui, inclinando la testa mentre mi guida in un giro lento.
Sorrido, inclinando appena il viso. «E io non ti aspettavo così prevedibile. Non mi piacciono gli uomini che pensano di avere capito tutto al primo sguardo.»
«Touché.»
Il suo sorriso è sottile. Non è intimidito, ma neppure arrogante. È uno che gioca a scacchi senza fretta. Eppure, c’è qualcosa in lui che mi sfugge.
La sua mano si posa con disinvoltura sulla mia schiena, un gesto tecnicamente impeccabile, ma che si ferma un istante di troppo.
Non reagisco. Non ancora.
Ho imparato a dominare anche il mio respiro, se serve.
«Confesso una curiosità personale,» dice, con voce morbida. «Com’è finita la figlia di un magnate russo… tra le braccia di Riven Lee?»
Il mio corpo si irrigidisce, ma è solo un attimo. Un fremito impercettibile.
Gli sorrido ancora. Lento. Tagliente. «Che domande pericolose fai, per essere uno con cui sto ballando da meno di un minuto.»
«La pericolosità è relativa. Dipende da quanto c’è da perdere.»
Ora lo guardo davvero. I suoi occhi sono color fumo, né chiari né scuri. Né amici né nemici. Ma svegli. Troppo svegli.
Lui sa qualcosa.
La domanda non era un’intuizione. Era un messaggio.
E dietro di noi, sento il peso di uno sguardo familiare. Il solo che riesca davvero a entrarmi sotto pelle.
Riven.
Non lo guardo. Non ancora. Ma so che ci sta osservando.
E il suo silenzio brucia più di qualsiasi parola.
«E dunque? Chi sei per fare domande del genere?» chiedo, lasciando che la mia voce si faccia più bassa.
«Uno che osserva. Uno che viene mandato.»
«Mandato da chi?»
«Da chi vuole sapere quanto costa la tua lealtà.»
Il cuore accelera. Ma non lo mostro.
Mi limito a sorridere, questa volta davvero gelida. «E tu pensi che basti un giro di valzer per comprare l’anima di qualcuno?»
«Non tutti vendono l’anima. Ma quasi tutti hanno un prezzo. Persino quelli che fingono di non averlo.»
Le sue parole mi scivolano addosso come olio bollente.
E quando, finalmente, sollevo lo sguardo oltre la spalla dell’uomo e incrocio quello di Riven, sento la lama della delusione farsi largo dentro di me.
Lui sorride. Ma non è un sorriso che nasce da gelosia.
È il sorriso di chi aspettava esattamente questa scena.
Di chi l’ha programmata.
Di chi ha gettato l’amo e ora aspetta solo di vedere che abbocchi.
Mi si gela qualcosa dentro.
Lui. Riven.
Mi ha lasciata andare con questo uomo. Mi ha lasciata danzare. Mi ha spinta a pensare di avere il controllo… solo per mettermi alla prova.
E io ci sono caduta.
Non per debolezza. Ma per superbia.
Respiro a fondo.
Chiudo gli occhi per un istante.
E quando li riapro, ho già deciso.
Questo gioco non finisce qui.
Lo capisco un attimo dopo, quando lo sguardo di Riven incrocia il mio attraverso la sala. C’è qualcosa in quegli occhi che non mi piace. Troppa calma. Troppo controllo. Non è gelosia quella che mi restituisce. È soddisfazione.
E mi si gela qualcosa dentro.
Mi volto appena, cercando di tenere il respiro calmo. Lui voleva questo. Quel passo, quel tocco, quel gioco tra me e l’altro uomo… era tutto orchestrato. Un’illusione di libertà dentro una gabbia dorata che ha costruito pezzo dopo pezzo. Credevo di sfidarlo, e invece ho ballato nel suo piano.
Mi si stringono le mani, anche se il mio volto resta intatto. Non posso permettere a nessuno di vedere. Nemmeno a me stessa.
Come ho potuto essere così… ingenua?
«Ti ha fatto male, vero?» chiede l’uomo con cui danzo, con un tono quasi divertito. «Non a livello fisico, intendo. Ma lì, dove non ammetti mai di essere vulnerabile.»
Lo guardo. Non è solo un emissario, è un provocatore. Uno spettatore che gode nel vedermi inciampare in quella che credevo fosse una mia trappola. Ma non reagisco come si aspetta. Non gli do la soddisfazione. Perché sì, mi ha ferita. Ma non cederò. Mai.
«Scommetto che anche tu hai pensato di poter leggere tutto di me in due sguardi,» mormoro, «ma io non sono una pagina aperta. Piuttosto, sono inchiostro che macchia chi tenta di voltarmi troppo in fretta.»
Lui ride piano. «Poetico. Ma il punto è: quanto sei disposta a farti macchiare, Anya? Riven ti ha marchiata, ma non ti ha ancora domata.»
Domata. Una parola che mi accende il sangue.
Lo lascio avvicinare ancora, ma solo per rendere più chiara la mia risposta. «Io non mi lascio domare. Non da lui. Non da te. E soprattutto… non da ciò che mi fa tremare. Io affronto ogni ostacolo e non perdo mai.»
Mi odora il respiro, e mi sento sciocca per ogni secondo in cui ho creduto di dominare il gioco. La rabbia mi brucia sotto pelle, ma è rivolta a me. A quella parte che ha voluto credere nel desiderio, nell'attrazione… invece della verità. E la verità è che Riven non desidera, orchestra. Non prende, possiede.
Io volevo farlo vacillare, ma sono io che sto perdendo l’equilibrio.
I miei occhi tornano a lui. Immobile, elegante, come se nulla potesse intaccarlo. La gente parla, brinda, ride. Ma io vedo solo lui. E lui, me. Ci teniamo in scacco con lo sguardo, mentre il mondo finge di non sapere.
Mi volto di nuovo verso l’uomo. Lo lascio guidare un altro passo. Ma dentro me, qualcosa cambia.
Non sono più l’Anya che voleva solo provocarlo. Ora voglio ribaltare la scacchiera. Voglio che sia lui, per una volta, a non capire cosa farò dopo.
Ci sono risate, bicchieri che tintinnano, qualche nota di pianoforte. Il mondo continua a girare, come se nulla fosse. Ma io non sento più nulla.
Mi muovo verso l'area bar come se fossi guidata da una forza che non so nominare. Sento i miei tacchi rintoccare sul marmo, il suono è ovattato, distante. Come se io e lui fossimo già chiusi in un altro spazio, in un’altra realtà.
Riven è lì, appoggiato con noncuranza al bancone, le dita a sfiorare un bicchiere che non beve. È perfetto nel suo completo scuro, una mano in tasca, il lembo della giacca scostato, come se il lusso potesse farsi casual solo per lui. I suoi occhi si sollevano appena quando mi avvicino, e dentro non trovo né sorpresa né scuse. Solo un’attesa silenziosa.
Mi fermo a un passo da lui. Troppo vicina per fingere disinteresse. Troppo lontana per appartenere.
«Non ho mai detto di essere docile,» sussurro, la voce bassa, controllata. «Ma tu sei molto più bravo a recitare di quanto immaginassi.»
Lui inclina il bicchiere, osserva la trasparenza del liquido come se vi leggesse dentro qualcosa. «E tu sei molto meno prevedibile di quanto sperassi.»
«Questo era il piano, quindi?» incalzo. «Lasciarmi ballare con lui. Lasciarmi credere di essere libera di provocarti, mentre in realtà… mi stavi solo osservando scompormi pezzo dopo pezzo.»
I suoi occhi tornano nei miei. Dentro c’è una calma che urla. Un silenzio che scava.
«Non ti ho impedito nulla,» dice. «Hai ballato. Hai provocato. Ti sei sentita potente. Ma sei qui. Davanti a me.»
«E ti stai chiedendo perché non ho ancora girato i tacchi.» Il mio sorriso è tagliente, ma mi fa male. Dentro, qualcosa si agita. Un orgoglio ferito, una delusione che brucia più del desiderio. «Forse perché, tra tutte le tue mosse, questa è l’unica che rispetto davvero.»
Riven si gira del tutto verso di me. Ora ci siamo solo noi, nel nostro piccolo teatro fatto di sguardi e secondi sospesi.
«E quale sarebbe?»
«Il lasciarmi ingannare. Il farmi sentire superiore per un attimo, per poi ricordarmi chi comanda davvero.»
Lui resta in silenzio, come se le parole dovessero sedimentare. Poi si sporge leggermente, la voce più bassa, più scura. «È questo che ti fa arrabbiare? Che hai abbassato la guardia?»
«No.» La mia risposta è immediata, ma non leggera. «Mi fa arrabbiare che io abbia pensato di poterti capire. Di sapere dove miravi. Che mi sia lasciata... sedurre dall’idea di controllarti.»
Un attimo. Poi il suo sguardo cambia. È come un lampo che non illumina: brucia.
«E ora? Cosa farai, Anya?»
Lo guardo, lentamente. Poi, senza perdere contatto con i suoi occhi, chiedo: «Quanto conta per te quell’uomo?»
Una pausa. Breve. Ma parlano i suoi occhi prima delle labbra.
«Non abbastanza.»
«Peccato.» Il mio tono è lieve. Quasi dolce. «Se fosse stato importante, avrei voluto qualcosa in cambio. Un altro pezzo della tua corazza. Ma così… lo eliminerò per puro piacere. Non per strategia.»
È un attimo. Un solo battito di ciglia, e Riven si fa silenzioso come la tempesta prima dell’acqua. Nessuna minaccia. Nessuna negazione. Solo il riconoscimento di ciò che sono.
«E se ti stessi usando ancora?» chiede piano.
«Allora fallo bene,» rispondo. «Ma sappi che non sono più il tuo gioco. Sono il tuo rischio.»
Nei suoi occhi vedo qualcosa che non mi aspettavo. Non è paura. Non è desiderio. È rispetto. Quello che si dà a un avversario che ha appena mostrato la lama sotto la pelle. Senza trucchi, senza veli.
Lui prende un sorso del suo drink. Io lo guardo.
E fuori, il mondo può anche bruciare.
Riven posa il bicchiere sul bancone. Il suono del vetro contro il marmo è netto, finale. Poi si china appena, sfiorandomi l’orecchio con la voce.
«Allora sorprendimi, Anya.»
La sua voce è un morso sul collo. Ma io non sono il tipo da tremare.
Mi avvicino. Lenta. I tacchi scandiscono un ritmo che non è il suo. È il mio.
Mi fermo a un soffio dal suo volto, sento il suo respiro trattenersi. E sorrido.
Le dita gli sfiorano il petto, poi risalgono con decisione fino alla gola, senza toccarla davvero.
«Sorprenderti? Sarebbe noioso. Preferisco… disorientarti.»
Gli giro attorno come se stessi scegliendo dove colpire. Dove farlo vacillare. Poi, alle sue spalle, gli sussurro:
«Il problema, Riven, è che più ti piace giocare con me… più scopri che sono io il vizio che non puoi permetterti.»
Mi sposto davanti a lui di nuovo, il nostro sguardo si incaglia. Il suo è teso, il mio spavaldo.
«Attento a non desiderarmi troppo,» mormoro, con un ghigno che sa di peccato. «Perché più mi vorrai… meno ti basterò.»
Poi, con lentezza studiata, mi alzo appena sulle punte e sfioro con le labbra il suo orecchio. Non un bacio. Nemmeno un contatto. Solo un'ombra.
«E quando ti mancherò… sarà già troppo tardi.»
Mi volto, me ne vado. E questa volta non per scappare. Ma per lasciargli addosso il bisogno. L’ossessione.
