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Capitolo 4 – Il Figlio di nessuno

Michel

Non so quanto tempo sono rimasto lì, in ginocchio. Forse un'ora. Forse un'intera vita. Il pavimento è duro, la moquette impregnata di un sangue che non è più caldo da tempo. Si è coagulato attorno ai miei ginocchi, appiccicoso come una promessa infranta. Non ci sono più lacrime. Più grida. Solo un vuoto. Un buco nero che pulsa, da qualche parte sotto le mie coste. Batte al mio ritmo. Mi divora. Mi tiene sveglio.

Ed è lì che torna tutto.

Il sapore del metallo. L'odore dei vecchi muri. Il silenzio troppo pesante, troppo denso. Poi i passi sulle scale. Troppo pesanti. Troppo affrettati. Non quelli di mio padre. Né quelli di mia madre. No. Un altro passo. Un'altra presenza. Un'ombra che non avrebbe dovuto essere lì.

E quella voce.

— Rimani lì, Michel. Non muoverti.

Mamma mi aveva nascosto nell'armadio delle scope. Un piccolo spazio incastrato tra due scaffali traballanti, dietro una tendina ingiallita dal tempo. Era buio. Sapeva di polvere, di chiuso, e di candeggina. Avevo sei anni. Il mio pigiama di Spiderman era macchiato di cioccolato e di colpa. Avevo paura di rovesciare il secchio. Paura che potessero sentire il mio respiro. Paura di tradire, solo tremando.

Ma non era il mio respiro che ho sentito. Era lui.

Un altro uomo. Una voce che non lasciava spazio. Che occupava tutto lo spazio, fino a rubare l'aria. Il padre di David.

Quel giorno, ho capito cos'è il potere. Quello vero. Quello che entra in una stanza e la svuota di ogni ossigeno. Quello che impone la sua legge, anche ai muri.

— Dov'è tuo figlio?

Lo aveva detto senza urlare. Quasi dolcemente. Come una domanda retorica. Come se conoscesse già la risposta. Come se stesse testando la dignità di mio padre, per il piacere di vederlo fallire.

Mio padre ha riso. Non a lungo. Una sorta di ghigno. Uno spasmo di orgoglio. Un riflesso di leone ferito.

— Non c'è. E anche se ci fosse, non tocchi mio figlio.

Lo aveva detto senza tremare. Si ergeva, immenso, mio padre. Indossava ancora la sua giacca da operaio, le mani macchiate di grasso. Aveva quell'odore di tabacco, di fatica, di coraggio ordinario. Mi portava sulle spalle come se fossi un re. Come se fossi tutto.

Ma negli occhi dell'altro, mio padre non era niente.

Poi il silenzio. Un silenzio più affilato di un grido.

E un rumore sordo. Come un sacco di sabbia sbattuto contro un muro. Il primo colpo. E poi, niente aveva più logica. I mobili hanno ballato. Gli oggetti sono caduti. Il vetro si è rotto. Mia madre ha urlato. Mio padre… No. Non ha urlato. Ringhiava. Come un animale abbattuto senza preavviso.

Poi un altro suono.

Secco. Affilato. Definitivo.

Bang.

Credo che sia lì che mi sia pisciato addosso.

Quando ho aperto gli occhi, la luce passava tra le fessure della porta. Un raggio sottile, affilato, come una lama. Tagliava l'ombra e cadeva dritto sulla pozzanghera rossa che strisciava verso di me. Lentamente. Come se il sangue stesso cercasse di trovarmi. Di battezzarmi.

Sono uscito dall'armadio tremando. Scivolavo quasi sulle mie stesse gambe. Avevo voglia di urlare, ma nessun suono usciva. La mia bocca era incollata dalla paura.

C'era mio padre, a terra. I suoi occhi aperti. Fissi. Il suo torace trafitto, il suo respiro strappato.

Mia madre, accartocciata come un vestito gettato. Una silhouette senza forma, senza voce. E lui. Il padre di David. In piedi, calmo. Come se avesse appena pagato una fattura. Si asciugava l'arma con un tovagliolo. Un tovagliolo ricamato che mia madre aveva ricevuto in regalo di nozze.

Si è girato verso di me. E lì, ho visto nei suoi occhi qualcosa di peggio della rabbia: l'indifferenza. Mi ha fissato. Non a lungo. Giusto il tempo per ridurmi in cenere. Il suo sguardo diceva: Non sei niente.

Poi se ne è andato. Senza una parola. Senza uno sguardo per mia madre che tremava, senza un passo di troppo. Non aveva nemmeno chiuso la porta.

Quel giorno, ho capito. Mio padre era forte. Ma era povero. Aveva il cuore, non il nome. Aveva i pugni, non il potere. E in questo mondo, coloro che non hanno nome possono morire senza eco. Senza giustizia. Senza memoria.

David non era mio fratello. Era mio fratellastro. Il figlio di quell'uomo là. Di colui che aveva preso ciò che voleva. Anche mia madre. Anche il mio posto. Anche la mia voce.

E tu, David… Non sapevi niente. Eri luminoso. Brillavi come se nulla potesse spegnerti. Eri il preferito, perché eri il sangue dell'altro. E io? Ero la macchia. L'errore. Il bambino del silenzio. L'ombra che si nasconde in un armadio.

Mi parlavi come se fossi tuo fratello. Come se avessi il diritto di condividere la tua luce. Ma ciò che non sapevi è che io vivevo nell'ombra del tuo splendore. Nella casa del mio lutto. E ogni risata che lanciavi risuonava contro i muri come uno schiaffo.

Non l'hai mai visto, quel bambino nell'armadio. Non l'hai mai sentito, perché non faceva rumore. Perché aveva capito che tacere era sopravvivere.

E quando ho preso quell'arma… Non è a te che ho sparato. È all'ingiustizia. All'indifferenza. A quella voce che diceva che non ero niente. Ho sparato al vuoto. Ai silenzi che seppelliamo vivi.

Ma non ho riparato nulla.

Lucia ha ragione. Sono un cratere. Un buco profondo. Un'assenza di tutto. Anche il mio odio non è riuscito a rendermi intero.

E ora, se n'è andata. Anche lei. È fuggita dal vuoto. È fuggita da colui che non ha mai saputo diventare un uomo. Solo un sopravvissuto.

Sono solo.

E in questo silenzio, non sento più che il ticchettio ossessivo di un orologio fantasma. Quello che non ho mai indossato, ma che ho sentito quel giorno, e che mi ricorda che il tempo continua. Anche per i morti viventi.

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