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Capitolo 2

Parcheggiai nel posto assegnato e scesi diretto in ufficio. Lavoravo per quel giornale da qualche anno, scrivevo articoli piuttosto interessanti che riguardavano il marketing e la pubblicità in un mondo poco conosciuto, quello della zootecnica.

Il mio capo, Ben, era il marito di mia sorella ed era stato lui ad assumermi. Non era stato facile all’inizio, ma poi mi aveva accettato di buon grado, accogliendo anche Paul. Diceva sempre che ero una completa contraddizione, attiravo schiere di donne ai miei piedi, ma amavo solo gli uomini, dominavo chiunque col mio carattere forte e piccato, ma prediligevo Paul, un uomo dolce e gentile, che mi completava dentro.

Era chiaro che non mi conosceva, eppure aveva il mio rispetto incondizionato per come aveva accettato questa mia natura, in un paese ancora molto pericoloso per uno come me, l’Arizona. Terra di cowboy, di uomini duri, di polvere e vacche, dove le donne si fottevano e ti sfornavano marmocchi senza battere ciglio.

Ci ero nato qui e nonostante la mentalità semplice e poco aperta, la sentivo la mia casa. Yuma era una cittadina di circa 3200 anime, situata nella Contea omonima, divenuta famosa negli anni cinquanta per merito di un famoso film che l’aveva vista protagonista per qualche mese “Quel treno per Yuma” era il titolo di quella pellicola, Gleen Ford il suo protagonista.

Qui il tempo assumeva un altro significato, aveva un’altra cadenza, le giornate erano scandite da ritmi lenti e ripetitivi, ma l’aria che si respirava ti riempiva i polmoni fino a farli pompare allo stremo, non potevo rinunciarci, anche perché Paul aveva scelto di restare qui, sacrificando New York e il suo caos immane.

Quando varcai la porta trovai Lucy ad attendermi “Ciao” dissi.

“Ciao James, ben arrivato” rispose abbracciandomi di nuovo “Ben vuole parlarti” aggiunse poi, “Dammi un minuto e ti raggiungo” fu la mia ultima risposta.

Lo prevedevo questo! Sapevo che Lucy si sarebbe infilata nella mia vita, eppure non mi diede fastidio, peggio di così non poteva andare. Ben mi accolse con un sorriso e mi fece accomodare davanti alla sua scrivania.

“Devo parlarti seriamente” disse fissando i suoi occhi grandi e scuri su di me.

“Allora fallo” la mia voce suonò rotta ma lui non si scompose.

“Devi darti una scrollata ragazzo mio! Ho deciso di mandarti a Lakeside, nel ranch dei McGragor a visionare due esemplari di toro mozzafiato. Abbiamo un contatto molto importante là, se quegli animali sono da riproduzione, scriverai l’articolo per il giornale.”

Lo guardai torvo.

“Ci saranno più o meno trenta abitanti in quel posto. Vuoi ammazzarmi forse?”

“No, a quello ci stai già lavorando tu, io voglio scuoterti invece!”

La rabbia mi prese inattesa.

“Lo sai cosa significa? In quel posto uno come me può durare al massimo un giorno.”

“Ti sbagli, se sarai diligente non avrai nessun problema.”

Mi alzai col cuore in subbuglio, odiavo i cowboy, la puzza di vacca, il loro linguaggio volgare e biascicato, la voglia di fottersi le mogli degli altri e la musica country.

Odiavo quel mondo, l’odiavo ferocemente! Ma Ben sapeva che ero l’uomo delle contraddizioni. Perché scegliere di vivere a Yuma se ne detestavo l’odore, le origini radicate e la mentalità campanilista e provinciale propria dell’ovest?

La risposta era semplice! Io qui mi sentivo protetto. Ero stato accettato dalla mia famiglia, avevo un compagno che amavo più di me stesso, e tutto questo era stato possibile in un posto dove la mia natura sarebbe stata considerata una malattia.

Era stato inebriante, lo era stato davvero, adesso invece tutto si era stravolto, trasformandosi in un macigno insopportabile, il cui peso mi stava schiacciando inesorabilmente.

Ben fece le sue telefonate quindi mi chiese di tornare a casa a fare i bagagli. Sarei partito nel primo pomeriggio, ci volevano più di cinque ore di macchina per raggiungere quel posto dimenticato da Dio.

Avrei fatto una sosta a Phoenix quindi per cena avrei raggiunto Lakeside. Non amavo viaggiare da solo, ma non avevo altra scelta.

Forse Ben aveva ragione, forse era giunto il momento di reagire, ma il mio cuore sanguinava ancora, e se a volte mi concentravo abbastanza ero in grado perfino di ricordare perfettamente il timbro di voce di Paul.

Mi aveva conquistato a poco a poco, con pazienza, insinuandosi delicatamente nella mia vita. L’avevo conosciuto per caso a New York in uno studio fotografico.

Ero lì per un articolo, lui invece era appena stato licenziato a causa della crisi che aveva già mietuto altre ‘vittime’.

“Sei bravo, troverai presto un altro lavoro, credimi!” gli avevo detto non appena avevo capito il motivo del suo sguardo stanco e smarrito.

“Non credo” aveva risposto lui con un tono rotto e sofferente.

Lo avevo guardato meglio, notando il suo portamento elegante, la sua pelle curata, la postura inconfondibile ed avevo esclamato “Ti sbagli, New York è sempre in cerca di uomini affascinanti come te.”

Era sempre stata la mia pecca quella di non controllare la lingua, ma in quel momento fu la cosa più giusta che potessi dire.

“Lo credi davvero?” chiese avvicinandosi per scrutare meglio il mio viso.

“Si, nessun dubbio.”

Allora lui prese coraggio e si presentò “Mi chiamo Paul.”

“Piacere James” replicai stringendogli la mano che aveva allungato.

Quel contatto mi procurò una scarica elettrica e in un battito d’ali sentii di volerlo fottere.

Mi piaceva.

Mi piaceva da morire.

Lui intuì ma non cedette “Vieni a pranzo con me?” chiese titubante “Sì, con piacere” replicai immediatamente.

Quell’invito sigillò l’inizio della nostra storia.

Ci misi del tempo per convincerlo a trasferirsi ma quando accadde la nostra vita cambiò in meglio. Paul era così riservato, così attento alle mie necessità che capii che era davvero speciale.

Imparai ad amarlo davvero, mentre il sesso divenne solo lo strumento per completare quel sentimento devastante che aveva riempito ogni spazio disponibile nel mio cuore.

Avevo sempre fottuto, scopato, fin dalla seconda media, ma non avevo mai fatto l’amore, fino a quando non avevo conosciuto Paul!

Partii in orario osservando la strada assolata davanti a me. La media era di circa 42 gradi, una cosa normale da queste parti. Osservai da lontano i riverberi provocati dalla calura, che creavano illusioni ottiche simili a miraggi e sospirai rassegnato.

Il viaggio sarebbe stato lungo, noioso e soffocante.

Phoenix mi apparve con la sua imponenza, pensai al fatto che fosse una delle città più grandi degli Stati Uniti e che pochi ne fossero al corrente. Forse dipendeva dal fatto che non godeva di un clima sopportabile. A volte tempeste di sabbia potevano scoppiare creando problemi davvero impressionanti. Mi fermai per una mezz’ora poi ripresi il viaggio.

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