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3

«Tu non andrai da nessuna parte, Steffy.»

«Ma... non merito più di restare qui, papà,» sussurrò Steffy, con una voce che un tempo era dolce, ora spezzata dal dolore. «Non sono nessuno. Non sono nemmeno sangue dei Willson.»

Hendry la fissò a lungo: i suoi occhi, velati di lacrime, ardevano di emozioni trattenute. «Forse non sei il mio sangue, Stef... ma sei mia figlia. L’unica che abbia mai saputo rendermi orgoglioso. Hai un cuore grande, e sei sincera.»

Steffy si morse il labbro, lottando per trattenere i singhiozzi che già le serravano la gola.

«E voi...» Hendry si voltò verso David ed Evelyn: la sua voce, fredda come l’acciaio, tagliò l’aria. «Avete disonorato questa famiglia. Tu...» il suo dito puntò contro David, «...sei un uomo senza dignità. E tu, Evelyn... porti nel grembo il figlio del marito di tua sorella?»

«Papà, io amo David...» tentò di giustificarsi Evelyn, con le labbra tremanti.

«Amore?» Hendry rise amaramente. «Se l’amore ti spinge a tradire il sangue del tuo sangue, allora non è amore. Non c’è mai orgoglio nel tradimento. E il bambino che porti dentro di te non cambierà questa verità.»

David aprì la bocca per parlare, ma Hendry alzò la mano, troncandolo.

«Non ci sarà mai matrimonio tra Evelyn e David. Ma io approvo che David e Steffy si separino!» la sua voce fu perentoria.

«Papà, non è giusto! Tua figlia è incinta e tu le impedisci di sposarsi? Io porto in grembo il futuro erede dei Willson!» Evelyn urlò, incapace di accettare quella condanna.

Il volto di Hendry si arrossò per l’ira. Le sue mani si serrarono a pugno lungo i fianchi, mentre con fatica reprimeva l’impulso di esplodere davanti a Steffy.

Evelyn provò ad avvicinarsi. «Papà, so che è stato un errore, ma io...»

Hendry la fulminò con lo sguardo, la voce tonante la interruppe come un colpo di frusta.

«Proprio perché porti in grembo sangue dei Willson, non permetterò mai a quell’uomo di vivere sotto questo tetto!»

David rimase attonito.

«Lascia che questo bambino nasca senza un padre,» continuò Hendry senza esitazione. «Io mi assicurerò che tu e tuo figlio abbiate un posto in questa famiglia, Evelyn. Ma quell’uomo, un traditore, mai!»

«No... papà, ti prego... non farci questo!» Evelyn pianse, disperata.

«Non hai bisogno di difendere quell’uomo!» urlò ancora Hendry. «È il marito di tua sorella. Cinque anni Steffy ha vissuto accanto a lui... e tu, la figlia che ho cresciuto con amore, hai avuto il coraggio di pugnalarla alle spalle?»

Evelyn tacque. Gli occhi le si velarono di lacrime, ma Hendry restò implacabile.

Dietro di lui, Steffy rimase immobile, stringendo ancora il manico della valigia. Il cuore le sanguinava, eppure una sottile fiammella di calore le ardeva dentro: suo padre la difendeva, anche se non era figlia del suo sangue.

«Papà... non so cosa dire,» mormorò Steffy, con voce incrinata.

Hendry si voltò e posò entrambe le mani sulle sue spalle. Lo sguardo che le rivolse era tenero, così diverso dalla lama di gelo che aveva riservato a Evelyn e David.

«Tu non andrai da nessuna parte, Stef. Questa casa resta la tua casa. Forse non posso guarire le tue ferite di oggi... ma non le affronterai mai da sola.»

Steffy annuì appena, con le lacrime che le velavano gli occhi.

David mosse un passo avanti, tentando di difendersi. «Signor Hendry, io amo Evelyn... voglio assumermi le mie responsabilità...»

«Se davvero volevi assumerti le tue responsabilità,» lo interruppe Hendry, con voce tagliente, «non avresti tradito tua moglie. E di certo non con sua sorella.»

Poi si girò verso i domestici che, impietriti, osservavano la scena.

«Accompagnate quest’uomo fuori. Da stanotte non metterà più piede in questa casa.»

David rimase immobile, ma due uomini robusti erano già pronti a scortarlo.

Evelyn tentò di seguirlo, ma la voce di Hendry la fermò, calma eppure inesorabile.

«Tu resti qui. Hai bisogno di protezione, e il bambino è parte di questa famiglia. Ma non aspettarti mai che io dimentichi quello che hai fatto.»

Steffy, ancora con la valigia in mano, guardò il padre.

«Papà... posso andare a stare un po’ nella villa?»

Hendry la fissò a lungo, poi annuì.

«Puoi andare ovunque tu senta il bisogno di curare il tuo cuore. Ma ricorda: questa casa sarà sempre aperta per te.»

Steffy scelse di allontanarsi. La villa sarebbe stata il rifugio dove ritrovare se stessa, lontano dagli occhi di Evelyn.

Salì in macchina e partì, lasciandosi dietro il caos che minacciava ancora di crescere.

Ma durante il viaggio, la sua testa cominciò a pesare, lo stomaco si contorse. Steffy chiuse gli occhi un istante, cercando di regolare il respiro senza staccare le mani dal volante.

«Devo accostare...» mormorò piano.

Vide un’area libera sul lato sinistro della strada, abbastanza ampia per fermarsi. Ma proprio mentre girava il volante, la vista le si annebbiò. Un’ondata di nausea le fece tremare le mani, il sudore freddo le imperlò le tempie.

CRASH!

Il rumore secco di un urto ruppe la notte. L’auto di Steffy aveva tamponato il retro di un SUV nero parcheggiato al margine della carreggiata. L’impatto non fu devastante, ma abbastanza da accartocciare il cofano della sua macchina e scuotere il paraurti del SUV.

Steffy sussultò, portandosi la mano alla fronte che pulsava di dolore. Cercò di restare lucida.

Non ebbe neppure il tempo di calmarsi che un uomo alto, dalle spalle larghe, con una giacca blu, scese dal SUV. Il passo rapido, lo sguardo pieno d’ira.

«MA SEI IMPAZZITA?!» urlò, picchiando con forza sul vetro del finestrino. «HAI APPENA DISTRUTTO LA MIA MACCHINA!»

Steffy trasalì. Abbassò lentamente lo sguardo, il corpo ancora scosso.

Con un filo di voce, abbassò il finestrino.

«Io... mi dispiace... non l’ho fatto apposta...»

«Non l’hai fatto apposta?!» l’uomo sollevò un sopracciglio, osservandola attentamente. I suoi occhi scorsero la pelle pallida, le mani tremanti, il sudore che le colava sulla fronte. «Se non sai guidare, non dovresti stare in strada! Potevi ammazzare qualcuno!»

Steffy abbassò ulteriormente la testa, una mano premuta sul ventre che le bruciava di nausea. Deglutì, stringendo i denti.

«Pagherò i danni... volevo solo accostare... mi sento male...»

La sua voce era quasi un sussurro.

L’uomo sbuffò, ma il suo tono perse parte della durezza. La fissò meglio: il volto cereo, il respiro affannoso, le gocce di sudore che le rigavano le tempie.

«Stai male?» domandò infine, con voce più calma, sebbene lo sguardo restasse teso.

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