Capitolo 1. Il sogno che inizia
L’alba si era sciolta in un cielo chiaro e tremolante, mentre il sole già alto riversava calore sulle colline.
Il piccolo villaggio sembrava sospeso in un tempo antico: campi gialli di grano ondeggiavano al vento, orti verdi punteggiavano la terra bruciata dal sole, e il profumo dell’erba calda, della polvere e del fieno tagliato riempiva l’aria densa.
Sui sentieri sterrati, mulinelli di polvere danzavano pigri.
Il canto delle cicale vibrava ovunque, mescolandosi al lontano starnazzare delle galline magre nei cortili screpolati.
In una modesta casa di fango e legno, Maria ripiegava con cura gli ultimi vestiti nella sua valigia sdrucita.
Le mani si muovevano lente, quasi timorose, come se ogni piega fosse un addio.
Ogni abito, ogni pezzo di stoffa liso, aveva un ricordo inciso dentro:
il primo inverno senza riscaldamento,
la festa del villaggio dove aveva danzato con le scarpe rotte,
le serate a studiare sotto la luce tremolante di una lampada a olio.
Fuori, il gallo aveva già cantato da tempo, ma lei era sveglia da ore, incapace di trovare riposo.
Oggi sarebbe partita per Shanghai.
Le assi di legno del pavimento scricchiolarono piano quando la madre adottiva, una donna minuta dagli occhi gentili, entrò nella stanza.
«Hai preso tutto, figlia mia?» chiese con voce tremante.
Maria annuì, stringendosi il labbro tra i denti per non piangere.
«Non preoccuparti, mamma. Ce la farò. Per voi... per noi.»
Era cresciuta in quel villaggio dimenticato, dove la terra era dura e l’acqua scarseggiava.
Non era figlia loro, lo sapeva da sempre.
I suoi genitori adottivi l'avevano trovata una mattina d’estate, tanti anni prima, durante una raccolta di erbe medicinali nella foresta.
Abbandonata tra i cespugli, avvolta in un telo logoro, piangeva con tutta la forza dei suoi pochi giorni di vita.
Accanto a lei, solo un piccolo braccialetto, inciso con il nome "Maria".
Un nome straniero, diverso da quelli del villaggio, misterioso come la sua origine.
Nonostante la povertà, pur sapendo quanto sarebbe stato difficile sfamare un’altra bocca, i suoi genitori adottivi l'avevano stretta tra le braccia e non l'avevano mai più lasciata andare.
L’avevano amata come fosse loro figlia di sangue.
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La vita, però, era stata dura.
Maria aveva imparato presto che i bambini non erano sempre buoni.
A scuola, i compagni la deridevano per i vestiti rattoppati, per la sua educazione diversa, troppo fine per un posto dove la rozzezza era considerata un merito.
La prendevano in giro, la escludevano.
Ma lei aveva stretto i denti.
Aveva studiato.
Aveva combattuto per ogni voto, per ogni piccolo riconoscimento.
Aveva camminato ore per raggiungere la scuola più vicina, sotto il sole implacabile dell’estate e la pioggia pungente dell’inverno.
Aveva vinto borse di studio.
Si era laureata in medicina in una piccola università provinciale, con sacrificio e ostinazione.
Ora, grazie a un'altra borsa di studio, avrebbe frequentato un prestigioso master di specializzazione chirurgica a Shanghai.
Una possibilità che sembrava un sogno.
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Il padre adottivo entrò nella stanza, portando un sacco di riso sulle spalle.
Era un uomo alto e magro, segnato dal lavoro nei campi e dalle stagioni dure, ma con occhi fieri.
«Portalo con te,» disse, poggiando il sacco accanto alla valigia.
Maria rise tra le lacrime.
«Papà... come faccio a portarmi un sacco di riso a Shanghai?»
disse, la voce spezzata dal nodo alla gola.
Lui si limitò ad abbassare gli occhi, un sorriso appena accennato sulle labbra.
«Per non dimenticare da dove vieni.»
Maria si avvicinò, stringendolo in un abbraccio improvviso.
Quelle parole semplici contenevano tutto l’amore del mondo.
Non avrebbe dimenticato.
Mai.
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Il ronzio lontano della corriera si fece più forte.
Una nuvola di polvere apparve all’orizzonte.
Era ora.
Maria si caricò la valigia leggera sulla spalla e uscì di casa.
Il sole estivo bruciava sulla pelle.
Il calore faceva tremolare l’aria sopra i campi.
Si voltò un’ultima volta.
La casa di fango e pietra sembrava più fragile che mai, ma anche incredibilmente forte.
I suoi genitori erano lì, in piedi, immobili, senza dire una parola.
Non c’erano amici ad attenderla.
Non c’erano compagni di giochi.
Non c’erano sorrisi, se non quelli pieni di lacrime dei suoi genitori adottivi.
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Salì sulla corriera mentre il motore tossiva, e trovò posto vicino al finestrino.
Solo allora, mentre il pullman iniziava a muoversi, Maria lasciò che lo sguardo si perdesse nel paesaggio.
Il villaggio scorreva via lento, intriso di luce e polvere.
I campi ondeggiavano sotto il vento caldo:
grano maturo dorato, ortaggi verdi, fiori selvatici cresciuti ostinati ai bordi della strada.
Tra le case basse di fango e legno, il fumo dei focolari si alzava lento verso il cielo limpido.
Gli alberi, piegati dal sole, sembravano vegliare sulle strade vuote.
C’era bellezza, nonostante la povertà.
C’era forza.
C’era memoria.
C'era dolore.
Maria strinse la valigia tra le mani.
Non voleva dimenticare nulla di quello che vedeva.
Non la terra secca, né il canto distante degli uccelli.
Non l'odore dolce del fieno, né il caldo secco che avvolgeva ogni cosa come un abbraccio rude.
Tutto questo era parte di lei.
Tutto questo sarebbe rimasto inciso nel suo cuore.
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I suoi genitori erano ancora visibili in lontananza, sempre più piccoli.
Due figure ferme, solide, contro l’infinito dei campi estivi.
Maria chiuse gli occhi per un istante.
Avrebbe voluto piangere.
Avrebbe voluto crollare.
Ma non lo fece.
Aveva già pianto abbastanza nella vita.
Ora era il momento di sognare.
Il momento di costruire e aiutare i suoi genitori per ripagare la loro gentilezza e il loro amore.
Shanghai l’aspettava.
Enorme, sconosciuta, piena di sfide.
Maria strinse i pugni sulle ginocchia.
Era venuta dal nulla.
Aveva superato il peggio.
Si era data da fare per arrivare a questo momento.
E adesso, per la prima volta, il suo sogno stava davvero per cominciare.
Finalmente nell'aria si respirava un nuovo inizio.
