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CAPITOLO 1

- ZED -

Se c’è una cosa che non sopporto è l’odore di nuovo che pervade l’Accademia Ravenswood ogni inizio di anno scolastico. Ha sempre qualcosa di artificiale, di finto, come se bastasse lucidare i pavimenti, ridipingere le pareti e sistemare le aiuole all’ingresso per nascondere le crepe e le ombre che scivolano tra i corridoi. Cammino lentamente lungo il viale alberato, le mani in tasca, la giacca della divisa sbottonata e la testa che mi ronzava già prima di mettere piede qui.

Da fuori, chiunque guardi Ravenswood per la prima volta potrebbe esserne affascinato. Un edificio neogotico, torri slanciate, vetrate istoriate, siepi sagomate e statue che paiono vigilare su tutto. Eppure, io non riesco a togliermi di dosso la sensazione di intrappolamento. Ogni anno è la stessa storia, mi sembra di entrare in una gabbia dorata dove tutti fingono di avere le idee chiare sul futuro, mentre io continuo a sentirmi fuori posto.

Stamattina ho preso l’autobus pubblico. Quando ho accennato a mia madre che mi sarebbe servito un passaggio, mi ha guardato con l’aria di chi ha mille pensieri per la testa e neanche un briciolo di tempo per rispondermi. Ho lasciato perdere. In fondo, se non ha avuto tempo per me in tutti questi anni, perché dovrebbe averlo adesso? Ho passato gran parte del tragitto con le cuffie nelle orecchie, la musica a volume alto per coprire le chiacchiere degli altri pendolari, studenti e lavoratori. Ogni tanto qualcuno mi guardava di nascosto, forse perché la mia divisa di Ravenswood stona con i miei capelli scompigliati, i jeans strappati e gli stivaletti che ormai han visto giorni migliori.

Ormai, però, conosco fin troppo bene gli sguardi. A qualcuno sembro un ‘cattivo ragazzo’. Ad altri uno che vorrebbe attirare l’attenzione. Io, in realtà, vorrei solo che la gente si facesse i fatti propri e mi lasciasse respirare.

Quando finalmente arrivo davanti al portone d’ingresso, poso lo sguardo sui dettagli gotici, su quegli archi a sesto acuto e sulle vetrate colorate che riflettono i primi raggi di sole. C’p una parte di me che un tempo trovava tutto questo affascinante. Ricordo la prima volta che ho messo piede qui. Ero pieno di curiosità, con la chitarra sulle spalle e l’idea, magari ingenua, di poter usare la mia musica per sentirmi libero. Poi, piano piano, Ravenswood mi ha insegnato che la libertà non è di casa tra queste mura.

Mentre attraverso l’atrio, incrocio gli sguardi di alcuni compagni di classe. C’è chi mi saluta con un cenno sbrigativo, chi invece si allontana di qualche passo come se avesse paura di me e delle mia ‘cattive abitudini’. In realtà, la mia unica cattiva abitudine è quella di non farmi mettere i piedi in testa da nessuno. Se poi qualcuno vorrebbe che io abbassi la testa e finga di essere come tutti gli altri, beh, mi dispiace ma non fa per me.

La giacca della divisa mi va stretta, e non solo in senso metaforico. Ho preso qualche chilo di muscoli durante l’estate, grazie alle lezioni di chitarra fatte in un locale pieno di tipi un po' fuori di testa, e adesso le cuciture tirano sulle spalle. Forse dovrei farmela allargare, o forse dovrei semplicemente fregarmene, come sto facendo.

Mi dirigo verso il mio armadietto, un rettangolo di metallo freddo e anonimo che, in teoria, dovrebbe essere personalizzato con targhette, adesivi, foto. Ma io non ho appiccicato nulla, non voglio lasciare tracce in questo posto, non voglio che diventi casa mia. Meglio continuare a sentirlo estraneo, così quando me ne andrò, non mi mancherà.

Apro lo sportello e butto dentro un paio di libri, poi scruto il corridoio. In fondo c’è un gruppo di ragazzi del primo anno, con gli occhi sbarrati e le espressioni spaesate. Mi ricordano me stesso qualche anno fa, quando mi ritrovai a fare i conti con la fama di Ravenswood “Solo i migliori e i più meritevoli” , dicevano. Invece ho capito che la scuola ammette sia ragazzi super ricchi sia qualche borsista che, come me, non può certo permettersi le rette astronomiche. Ecco uno dei motivi per cui non vado d’accordo con tanti qui dentro. C’è chi vede il mondo come un grande parco giochi, senza fare i conti con la realtà, e chi invece deve lottare con i pugni e con i denti per guadagnarsi un posto al sole.

Mi volto e quasi non mi accorgo di una figura che mi passa accanto di corsa, sfiorandomi la spalla. È Clementine, o ‘Clem’ come la chiama quasi tutto il mondo. I suoi capelli rossi ondeggiano leggeri, e la riconosco subito dal sorriso che sembra illuminare il corridoio. Ha il solito sguardo entusiasta, come se perfino l’odore di vernice fresca fosse per lei una promessa di novità e bellezza. Indossa la divisa con quella grazia che la caratterizza, riuscendo a renderla meno rigida grazie a qualche accessorio colorato. Mi sorride appena, un sorriso che, nonostante tutto, mi fa piacere vedere. Rispondo con un cenno del capo. Lei potrebbe venire qui e abbracciarmi, dirmi quanto è felice di rivedermi, chiedermi come sto veramente. Ma non accade, perché intorno a noi c’è troppa gente e Clem sa che detesto le effusioni in pubblico.

Faccio per spostarmi lungo il corridoio quando sento la voce di una professoressa che richiama l’attenzione su di me. La ignoro. Non ho nessuna voglia di prendermi una predica per via dei miei stivaletti e della giacca slacciata. Ciò che mi importa davvero ora è trovare un angolo tranquillo dove radunare i pensieri.

Attraverso il cortile interno, quello con le panchine di pietra. Di solito, questo spazio è una sorta di ‘zona neutra’, dove gli studenti si siedono a chiacchierare o a studiare quando non piove. Butto l’occhio in direzione della biblioteca che, con le sue enormi vetrate, riflette il sole. Dietro quei vetri ci sono centinaia di libri e anche un’aura di pace che a volte mi fa bene. Ma oggi non mi sento pronto a immergermi nel silenzio di quei tomi.

Noto un gruppetto di ragazzi di terzo anno che mi osservano e sussurrano qualcosa. Ridacchiano, forse pensando alla rissa che c’era stata a fine anno scorso, quando non mi era tirato indietro di fronte a un bullo che tormentava un borsista più giovane. Non ne vado fiero, ma di certo non mi pento di avergli dato una lezione. In un posto come Ravenswood, dove tutti nascondono le proprie debolezze dietro una maschera di perfezione, non sopporto gli ipocriti che se la prendono coi più deboli.

Cammino senza fretta, le spalle leggermente contratte, un peso indefinito sul petto. Non è solo il fastidio di tornare qui, è qualcosa di più profondo. Mi rendo conto che quest’anno potrebbe essere un ‘ultimo giro di giostra’, l’ultima possibilità di… di cosa, esattamente? Redimermi? Fare pace con i miei demoni? O forse dimostrare a me stesso che non sono solo un tipo collerico e cinico che sa strimpellare la chitarra?

Entro nell’aula di musica, vuota e semibuia, e mi fermo accanto al pianoforte a coda che troneggia al centro. Mi tolgo la giacca e la getto su una sedia, poi giro intorno allo strumento. Mi attrae e mi respinge al contempo. Non sono un pianista, non l’ho mai imparato. Mio padre, quello sì, aveva manie da concertista. Mi diceva che un giorno avrebbe suonato nei teatri più famosi del mondo. È andata a finire che ha abbandonato me e mia madre, lasciandoci solo un pianoforte scordato e un mucchio di sogni infranti.

Sospiro e sfioro i tasti. Ne esce un suono sordo, segno che lo strumento va accordato. Mi infastidisce che nessuno se ne prende cura. Eppure, in un posto prestigioso come Ravenswood, ci si aspetterebbe che ogni strumento venga maneggiato con devozione. È l’ennesimo segnale che qui dentro si bada più all’apparenza che alla sostanza.

Mi abbandono su uno sgabello, chiudo gli occhi e provo a calmare quel vortice di pensieri. Penso a Isa, la ragazza che conosco da quando eravamo bambini. Lei sì che prende tutto sul serio: lo studio, gli obiettivi, il futuro. Le sue ambizioni le nasconde dietro sguardi timidi e una tonnellata di libri, eppure so bene quanta passione metta in ogni cosa che fa. Mi chiedo come stia affrontando questo primo giorno dell’ultimo anno. Sono sicuro che avrà già riempito l’agenda di appunti e scadenze.

La verità è che mi manca, anche se a volte la sua precisione maniacale mi fa venire voglia di scuoterla. Siamo cresciuti insieme, ma è come se ci stessimo pian piano perdendo. Io mi rifugio nella musica e in atteggiamenti autodistruttivi, lei si protegge con lo studio e l’ossessione per il successo accademico. Dovrei parlarle, forse. O magari no, forse potrei continuare a evitare qualsiasi legame troppo stretto, come ho sempre fatto.

Mentre sono lì a rimuginare, la porta dell’aula si apre e una professoressa, credo insegno storia dell’arte, mi squadra con aria severa.

“Ashmore, la lezione sta per iniziare. Cosa ci fai qui?”

“Mi preparavo mentalmente al nuovo anno, prof,” rispondo sarcastico.

Lei mi fissa senza apprezzare la mia ironia.

“Non sei in orario con la tua classe. Ti conviene sbrigarti prima di incorrere in una segnalazione.”

Sorrido di traverso, afferro la giacca e mi avvio verso la porta. Non ho voglia di discutere, né di ribattere. Comunque, ho già capito che l’atmosfera è la stessa dell’anno scorso. Professori che mi guardano come fossi una bomba a orologeria, compagni che si tengono a distanza, e amici, pochi in realtà, che cercano di coinvolgermi ma ottengono in cambio sorrisi amareggiati e spalle alzate.

Raggiungo la mia nuova aula. L’insegnante di letteratura sta presentando il programma del corso, con lo sguardo colmo di entusiasmo. Io cerco un banco in fondo, quello più vicino alla finestra, e mi ci siedo. Da qui posso vedere parte del parco e un angolo di cielo che mi aiuta a non sentirmi troppo chiuso.

Nell’aula, qualcuno sta già prendendo appunti in maniera frenetica, qualcun altro chiacchiera sottovoce, altri ancora sono intenti a scambiarsi i saluti dopo l’estate. Io fisso la cattedra, il volto della prof che si agita in un monologo che non colgo pienamente. Sento la parola ‘Dostoevskij’ da qualche parte, e la mia mente va subito a un suo libro che ho letto mesi fa. Paradossale, tutti mi credono uno a cui non importa nulla dello studio, ma in realtà ci sono argomenti che mi interessano, letteratura compresa. Semplicemente, preferisco studiarli da solo, senza dovermi omologare.

A un tratto, la porta si apre e compare Isa, leggermente ansimante. Ha i capelli castani legati in una coda, e i suoi occhiali grandi le scivolano un po' sul naso. La divisa le sta a pennello, ma lei fa di tutto per non farlo notare. Spero che trovi un posto a sedere vicino a me, ma lei si siede due banchi più avanti, di fianco a un altro compagno. Non ho idea se mi abbia visto o meno. Probabilmente sì, ma magari non ha voluto attirare l’attenzione. O forse è arrabbiata con me per qualcosa. Non lo so, è difficile capirla.

Mentre la prof continua a parlare, mi rendo conto che l’aula inizia già a starmi stretta. Vorrei uscire, fumarmi una sigaretta, anche se so che fa male ma mi aiuta a calmare i nervi, magari prendermi un caffè al distributore o, meglio ancora, andarmene sul tetto a guardare la città dall’alto. Questo mio desiderio di fuga è sempre presente. Non è che non voglia imparare, è che mi sento come un pesce fuor d’acqua, costretto a stare in una boccia di vetro troppo piccola.

Alla fine della spiegazione, la prof ci congeda in anticipo, spiegando che avremo un ‘turno di orientamento’ in palestra. Pare che l’accademia abbia organizzato una sessione introduttiva per ricordarci le regole fondamentali, le attività extracurriculari e tutte quelle formalità che a me paiono superflue. La prof chiede a Isa di aiutarla a distribuire alcuni fogli. Mentre Isa si alza, i nostri sguardi si incrociano per un attimo. In quegli occhi verdi, dietro le lenti, mi sembra di cogliere un accenno di esitazione, come se volesse dirmi qualcosa. Poi distoglie lo sguardo e si concentra sul compito.

Esco dalla classe e mi mescolo al flusso di studenti lungo il corridoio. In tanti sembrano entusiasti di questa presentazione, parlano di club di scacchi, squadre sportive, circoli di fotografia e chissà cos’altro. Io penso alla musica, ma ho una sorta di rigurgito di sfiducia. Che senso avrebbe partecipare alle attività musicali dell’accademia, se sono tutte impostate, disciplinate e ben lontane dallo spirito ribelle che mi spinge a suonare? Preferisco rimanere indipendente, scrivere le mie canzoni, magari strimpellare in qualche locale, sempre che mi facciano entrare.

Arrivato in palestra, prendo posto sugli spalti, mi siedo in alto, in modo da avere una visione dell’insieme ma anche la possibilità di andarmene senza dare nell’occhio. L’incontro inizia con un lungo discorso del preside. È la solita cantilena sulle opportunità che Ravenswood offre, sulla responsabilità di dare il massimo, sull’onore di frequentare una scuola così prestigiosa. Le parole scivolano via, mentre io fisso i lacci dei miei stivaletti.

Quando cala il silenzio, alzo lo sguardo e intravedo Evan in prima fila, seduto insieme ad alcuni membri ella squadra di basket. Lui sì che sembra perfettamente a suo agio in questa realtà dorata, eppure so che dentro ha un vuoto che lo tormenta. Evan è uno di quei tizi che potrebbero avere tutto, eppure cercano disperatamente qualcosa che non trovano mai. È un po' come me, solo che lo maschera meglio dietro auto costose e un sorriso da copertina.

Poi noto Clem, seduta non lontano da Evan. I suoi capelli rossi spiccano come un fuoco acceso. Parla con una ragazza più giovane, probabilmente una matricola, e la incoraggia con un sorriso. Ogni tanto lancia qualche occhiata qua e là, come ad assicurarsi che tutti, compreso io, stiano bene. È così che si comporta Clem, sempre pronta a riaggiustare i fili rotti, a riportare l’equilibrio quando qualcosa scricchiola.

Io, intanto, resto sulle mie, cercando di capire come affronterò quest’ultimo anno. Melo ripeto in testa: ‘ultimo anno’. Un pensiero che mi agita e al contempo mi solleva. Forse perché, una volta finito, sarò finalmente libero di scegliere che direzione dare alla mia vita. Eppure, un filo di malinconia si insinua in me. Mi piaccia o no, qui ho comunque costruito qualcosa, anche solo un’identità da ‘ribelle’ che mi viene facile interpretare. L’idea di uscire da Ravenswood e non rivedere più volti come quello di Isa, di Clem, di Evan… mi fa sentire un vuoto che non pensavo possibile.

La presentazione si chiude con un applauso. Alcuni studenti scendono sul parquet della palestra per chiedere informazioni sui corsi, altri si avviano verso l’uscita con l’aria di chi vuole soltanto arrivare in mensa e farsi una pausa. Io resto seduto un momento, finché non vedo che anche l’ultimo gruppo di gente si sta muovendo. Sospiro, mi alzo e infilo le mani in tasca, facendo per andarmene.

Mentre mi dirigo verso l’uscita, sento una voce alle mie spalle.

“Zed! Ehi, aspetta!”

Mi giro e, con un misto di sorpresa e sollievo, vedo che è Clem. Raggiunge il mio gradino in pochi passi, e il suo sorriso è come una ventata d’aria fresca.

“Come stai?” chiede, inclinando la testa.

“Come vuoi che stia?” sbuffo “Lo stesso posto, le stesse facce…”

Lei non si scompone.

“Lo immaginavo. Però… è l’ultimo anno, no? Potrebbe succedere di tutto.”

“Già. Potrebbe anche piovere meteore,” rispondo sarcastico.

Clem ridacchia, ma non sembra offesa. Mi colpisce sempre la sua pazienza nei miei confronti.

“Non sei curioso di scoprire cosa ti riserva quest’anno?”

“Non molto. Comunque, spero di cavarmela e andarmene da qui il prima possibile” ribatto, anche se dentro di me una vocina mi dice che non è esattamente così.

Clem sorride ancora e posa una mano leggera sulla mia spalla, un gesto d’affetto che di solito mi metterebbe a disagio, ma che ora, chissà perché, mi dà un filo di serenità.

“Se hai bisogno di qualsiasi cosa, sai dove trovarmi.”

Annuisco appena. Non sono bravo a ringraziare le persone, men che meno a mostrare gratitudine o affetto. Ma, l’idea che Clem ci sia, che Evan e Isa ci siano, rende meno insopportabile questa ‘gabbia dorata’.

Uscendo dalla palestra, sollevo lo sguardo verso le alte vetrate e penso – Bene, primo giorno andato - Mi attende un lungo anno, con esami, progetti, professori stressanti e compagni che non riesco a sopportare. Ma mi attendono anche le poche persone che mi fanno sentire vivo, la musica che mi scorre dentro, le parole che butto giù nei testi che non oso far leggere a nessuno. E mi attendono scelte che, volente o nolente, definiranno chi sono e dove andrò a finire.

Forse, in fondo, ho paura. Paura di legarmi, di restare deluso, di finire come mio padre, sconfitto e lontano da tutto. Ma mentre attraverso il corridoio verso la prossima lezione, mi rendo conto che forse, proprio perché sono terrorizzato, dovrei iniziare a prendermi qualche rischio. Se c’è un momento per cambiare, per spezzare le catene che io stesso mi sono imposto, è adesso. In quest’ultimo anno in cui il futuro non è ancora scritto.

Con questo pensiero stampato in testa, sorrido appena, un sorriso amaro ma pieno di potenziale, e mi inoltro tra i ragazzi che affollano il corridoio, con la strana sensazione di avere il cuore più leggero, anche solo per un momento.

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