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Capitolo 8 - William

Ho ancora i capelli bagnati, e sento le gocce d’acqua che mi scivolano sul collo, poi giù lungo la schiena, facendomi rabbrividire. Gli agenti si divertono a cronometrare le mie docce, riducendo i minuti a mia disposizione ogni volta. È una tortura deliberata, un modo subdolo per stuzzicarmi, per accelerare la mia punizione.

«Hai visite, Peterson,» tuona una voce ruvida dietro la mia porta.

Poco dopo, scatta la serratura. L’agente mingherlino si avvicina con un sorrisetto di scherno, brandendo le manette come fossero un trofeo. Non lo guardo nemmeno, allungo le mani in automatico. Poi alzo lo sguardo e la vedo.

La dottoressa Roger. Ginger.

È lì, sulla soglia della mia cella, dritta e rigida, ogni movimento misurato. Indossa pantaloni neri stretti che le abbracciano le gambe lunghe e affusolate, una camicia bianca che contrasta con il suo incarnato e tacchi alti che la rendono ancora più imponente. La giacca è arrotolata e poggiata sulla sua borsa. È la personificazione del controllo, ma qualcosa nei suoi occhi tradisce una scintilla diversa.

«Prego, dottoressa Roger,» dice il pivello, dandosi delle arie. «Se ha bisogno, io sono qui fuori.»

Lei lo ignora quasi del tutto, rispondendo con un tono gelido. «Grazie, stia comodo. Non ho bisogno di nulla.»

Entra con passo deciso, ma lento. Depone la borsa e la giacca su quel tavolo malridotto che fa parte dell’arredamento spartano della cella. Rimane di spalle fino a quando l’agente chiude la porta con un rumore secco.

Siamo soli.

«Buongiorno, Peterson,» dice senza girarsi subito, mantenendo quel tono professionale che sembra una corazza.

Ieri ero William. Oggi sono di nuovo Peterson. Vorrei sottolinearlo, indispettirla, metterla in difficoltà, ma rimango in silenzio.

«Salve, dottoressa,» dico con un tono che cerco di mantenere neutro, anche se c’è una punta di sarcasmo che mi sfugge.

«Mi hanno concesso di raggiungerti qui per evitarti il corridoio,» spiega, senza emozione, come se stesse leggendo un rapporto.

Capisco subito cosa intende. Sta parlando di quel tratto maledetto, dove i criminali delle celle vicine non perdono occasione per insultarmi, minacciarmi, cercando di farmi a pezzi con le loro parole. È una prassi quotidiana che ho imparato a ignorare, ma sentirgliene parlare, anche solo con questa fredda oggettività, mi dà una strana sensazione.

«Grazie,» rispondo, quasi con sorpresa.

È stato… premuroso da parte sua. Non me lo aspettavo, ma non posso fare a meno di pensare che, in fondo, ciò che pensano gli altri non mi tocca più. Per loro sono un maledetto bastardo, e questa immagine di me non cambierà mai, indipendentemente da quello che faccio.

«Come stai?» chiede, voltandosi finalmente verso di me.

La sua domanda mi coglie alla sprovvista. Per un attimo, i nostri sguardi si incontrano, e c’è qualcosa nei suoi occhi che mi lascia interdetto. È solo un istante, ma abbastanza per notare che le scivola di mano la penna. Mi piace pensare che sia a causa mia.

Le guance le si imporporano leggermente, una reazione che cerca di mascherare chinandosi in fretta per raccogliere la penna. Evita il mio sguardo mentre si risistema, tornando alla sua posa composta sulla sedia.

«Diciamo pure bene,» rispondo con un mezzo sorriso, anche se il freddo che mi avvolge racconta una storia diversa.

«Sicuro? Perché hai i capelli bagnati?»

«Ho appena fatto la doccia.»

«Qui dentro fa freddo,» osserva, con un tono che mi fa quasi credere che si stia preoccupando.

«Si sta forse preoccupando per me?» la stuzzico, alzando un sopracciglio.

Lei finge di non sentirmi. Si concentra sull’agendina che ha tra le mani. «Riprendiamo da dove abbiamo interrotto ieri,» dice, tagliando corto.

«Non ricordo dov’eravamo rimasti.»

«Hai problemi di memoria?» ribatte, con un sarcasmo sottile ma pungente.

«Può darsi,» rispondo con un sorrisetto, sapendo benissimo che la mia risposta la irriterà.

Lei solleva lo sguardo. Gli occhi di ghiaccio, duri come lame, si posano su di me. È di nuovo la dottoressa Roger, quella donna che ieri ha scavato nella mia testa senza pietà. La donna che, lo so già, finirà per fottermi il cervello. Solo quello, purtroppo.

«Quando hai finito di fare lo stronzo, comincia pure.»

Le sue parole sono come uno schiaffo, ma invece di farmi arrabbiare, mi fanno sorridere. Non posso fare a meno di ammirare il suo coraggio, il modo in cui mi affronta senza mai abbassare la guardia.

«Non ne voglio parlare,» dico, incrociando le braccia, la voce più ferma del solito.

«È nel tuo interesse,» insiste, la sua voce che si fa più tesa, quasi come una minaccia velata.

«Lo pensa davvero?» sbotto, sentendo la rabbia che monta, puntuale come sempre. Basta un niente per accenderla, per farmi esplodere. «Sono colpevole, sarò dichiarato colpevole, e andare a ficcare il naso nei cazzi miei del passato non sono affari che la riguardano.»

La mia voce si alza di tono, e vedo una piccola crepa nella sua maschera di professionalità. Non è paura, è qualcosa di diverso. Forse fastidio, o forse interesse. Non riesco a decifrarlo, ma la sua calma apparente mi irrita ancora di più.

Lei mi fissa per un lungo istante, poi abbassa lo sguardo sull’agendina. La sua mano si muove fluida mentre prende appunti, come se le mie parole non fossero altro che dati da archiviare. Mi fa sentire nudo, esposto, e non so cosa darei per sapere cosa sta scrivendo.

Poi si alza. Poggia il taccuino sulla sedia e avanza verso di me. I suoi movimenti sono lenti, deliberati, ma non ho intenzione di arretrare. Rimango seduto sulla branda, con le mani legate, la schiena dritta.

«Stammi a sentire, William,» dice, la sua voce più bassa, come se non volesse che qualcuno all’esterno potesse ascoltarci. «Sì, sei colpevole. E sei un maledetto figlio di puttana. Ti chiuderei qui dentro senza cibo né acqua e butterei la chiave. Oppure ti farei picchiare a morte, per ripagarti con la stessa moneta per ciò che hai fatto.»

Le sue parole sono dure, ma la sua voce si incrina appena, e quel piccolo cedimento mi colpisce più di qualsiasi insulto.

Prende un respiro profondo, e i miei occhi si fissano sulle sue labbra, morbide e invitanti. Non dovrei pensarci, ma non riesco a evitarlo.

«Ma sono dell’idea che sotto ci sia dell’altro,» continua. «E si dà il caso che il mio intervento possa essere una specie di remissione dei tuoi peccati. Quindi, se vuoi essere salvato, devi fare ciò che ti dico io.»

La sua voce è un miscuglio di autorità e sfida, e per un istante mi chiedo chi stia cercando di convincere: me o se stessa.

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