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Capitolo II

C’è una cosa che compresi presto. Attilio aveva fatto quello che è normale per tutti, o quasi. Si era lasciato andare a qualche confidenza di troppo col suo migliore amico, Gaetano, il figlio del barista di fronte casa mia, il quale, a distanza di un mese da quel pomeriggio, venne da me a consegnare il fitto dei locali del bar, che erano di proprietà dei miei.

Quando bussò alla porta aprii con l’accappatoio addosso, avevo fatto il bagno da poco.

«Ciao, Gaetano, entra».

Non mi sembrò carino prendere la busta coi soldi e chiudere la porta. Pensavo che avrebbe rifiutato l’invito. Invece accettò.

Posò il pacchetto sul tavolino d’ingresso e mi prese la mano.

«Sei solo?»

«Sì».

«Vieni con me» ordinò con tono secco, non prepotente, ma con l’autorità di chi non prevede dinieghi.

Mi guidò nel salone, la stanza più vicina all’ingresso. Quando fui disteso sul pavimento sollevò l’accappatoio scoprendo il sedere. Sentii qualcosa di duro, molto duro, adagiarsi, di traverso, sotto il foro anale

Non dissi niente, come al solito ero disposto ad accettare qualunque cosa, da chiunque lo desiderasse, però pensai che fosse la volta buona.

Ma non mi penetrò, lambiva l’orifizio con la parte centrale dell’asta, la faceva oscillare e sbattere tra le mie gambe, come fosse un batacchio. Ce l’aveva d’acciaio.

Poi appoggiò la punta tra le natiche, molto al di sopra del punto d’ingresso, e cominciò a spingere, poi si lamentò.

«Ma dove ce l’hai il buco?»

Altra occasione sprecata. Lui con quella domanda mi aveva, di fatto, chiesto se lo volessi dentro. Potevo rispondere più giù, o portarlo io con la mano verso il luogo dei miei sogni. Non feci niente di tutto questo.

Gli dovette sembrare un freno perché sapeva dove andare, posizionò il membro al posto giusto e bene mi fece solo sentire quanto fosse turgida la cappella.

Il contatto mi provocò un’eccitazione simile a quella della biglia, ma moltiplicata all’infinito, poi lui indietreggiò e sborrò sul pavimento, mentre mi sollevavo da terra lo sentii chiedere della carta.

«Non ti preoccupare, pulisco io» risposi.

Salutò e se ne andò lasciandomi alle prese con uno straccio per lavare il pavimento e la delusione per il mio ennesimo fallimento.

Altra opportunità sprecata, ulteriore segnale che ai maschi piacevo, però. Gaetano era venuto in fretta e aveva lasciato un bel po’ di sperma a terra, quindi gli ero piaciuto, mi consolai pensando a questo e al fatto che avevo fatto un passo avanti.

Lui era il primo che aveva ammirato il mio culo in tutta la sua sporgenza. Mi promisi che avrei fatto qualcosa per far sì che presto accadesse un’altra volta e di essere più deciso quando sarebbe accaduto.

Ma non avvenne più nulla per anni. Gaetano non aveva detto niente a nessuno, ovvio. La sua famiglia rispettava troppo la mia. Dopo quel giorno mi salutò e si comportò in modo naturale, come se non fosse successo niente, e in effetti era vero. Tra noi due non si era realizzato ciò che avrei gradito.

Ma è anche vero che forse ha evitato di penetrarmi a causa delle apprezzabili dimensioni del suo cazzo. Temeva di causarmi dolore, o, più probabile, lo aveva condizionato la mia età.

Io ero un adolescente col viso che ancora aspettava l’arrivo di qualche pelo somigliante a un accenno di barba. Lui un uomo fatto, oltre che dotato.

Da quel giorno non si verificarono più avvenimenti che avessero attinenza con la sensualità. Terminate le scuole medie i miei genitori mi iscrissero al Liceo Classico. Tappa introduttiva prima della laurea in farmacia.

Anche se avrei preferito studiare lingue straniere acconsentii di buon grado. Per me una scuola valeva l’altra. Non ero un grande studioso, infatti.

Fin da ragazzo se dovevo leggere un libro mi mettevo con impegno e lo divoravo in breve tempo. Ma se era un testo scolastico facevo fatica a concentrarmi.

La cosa non mi ha mai preoccupato. Nel percorso verso la laurea avrei potuto contare sugli occhi vigili e benevoli dei miei genitori. In particolare di quelli paterni.

Frequentai il ginnasio senza infamia né lode. Studiavo per ottenere la sufficienza, ma, chissà perché, i voti erano sempre più alti del dovuto.

Del biennio mi è rimasto impresso il ricordo di quanto abbia detestato I promessi sposi, per poi sostituirli, nella scala dell’antipatia, con il De bello gallico.

Ma ignoravo che il caso mi avesse assegnato in dote un compagno di banco che avrebbe rappresentato una svolta importante per la mia esistenza.

Francesco Mauro, questo era il suo nome, era un ragazzo simpatico e gioviale. Capelli a spazzola, occhi marroni e naso schiacciato. Scaltro e intraprendente, piaceva alle ragazze.

Anche io avevo il mio seguito, ma lui non perdeva occasione per attaccare discorso con loro, a differenza mia che fingevo di non comprendere gli sguardi languidi che ricevevo da loro.

D’altra parte non potevo. Il mio interesse per il corpo femminile era nullo, e nemmeno vedevo in Francesco un possibile amante.

Lo avevo iniziato a frequentare anche fuori dal contesto scolastico visto che abitavamo a pochi chilometri di distanza e mi ero convinto che gli interessassero solo le donne.

Lui era l’ultimo di sei figli di un impiegato comunale. Non gradiva stare in casa perché soffriva la presenza degli altri componenti più grandi di lui, ma, soprattutto, per il suo appetito sessuale.

Era sempre alla ricerca di qualche ragazza disponibile. Ma spesso si scontrava con i dubbi e le paure che tutte avevano, data l’età e il comune senso del pudore. Che in quegli anni era colmo d’ipocrisia molto più di oggi.

Quindi lui acchiappava poco e io, quando non andavo in giro con lui, mi chiudevo in casa a leggere o ascoltare musica, lasciando che il mio cervello a fantasticare sul giorno in cui avrei ottenuto risposte, e piacere.

Un pomeriggio pensai che avrei dovuto attendere a lungo ma che essendo napoletano il lasso di tempo sarebbe stato assimilabile alla vigilia.

A Napoli in particolare, ma credo in buona parte del Sud dell’Italia, si vivono con maggiore intensità i preparativi che la festa in sé.

Chi è meridionale dentro inizia il Natale l’otto dicembre e vive il suo culmine la sera del ventiquattro. La vigilia. I giorni che seguono gli risultano meno pieni.

In realtà elaboravo questi concetti per offrire una speranza a me stesso. Nel più profondo della mia anima temevo che l’attesa sarebbe durata per sempre.

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